Articolo di Pietro Salinari correlato al convegno” “La guerra, l’Ucraina e l’Europa: difesa, economia, energia”.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia costringe ad un ripensamento su alcuni criteri che hanno garantito la pace nell’ultimo mezzo secolo. In un articolo sul Economist1, pubblicato pochi giorni prima dell’invasione, lo storico Harari ha messo in rilievo come l’eventuale scoppio della guerra avrebbe potuto cambiare la direzione della storia. Si ipotizzano due strade: l’una sarebbe caratterizzata dal prevalere della linea di pensiero che ritiene che la predominanza del più forte sia un carattere intrinseco della natura umana, e che quindi le guerre sono l’unico modo di regolare i rapporti tra gli stati. L’altra strada ipotizzata dall’autore è quella che sostiene che la “legge della giungla” non sia una legge naturale, gli umani l’hanno creata e gli umani possono cambiarla. Questa strada è stata, secondo Harari, quella prevalente negli ultimi 70 anni, indotta dalla deterrenza connessa alle armi nucleari che ha reso impossibili confronti militari diretti fra le maggiori potenze, e nel contempo ha reso possibile un aumento delle relazioni commerciali e culturali in tutto il pianeta; milioni di uomini sono usciti dalla povertà.
Si aprono quindi all’umanità due strade: o proseguire su questo trend positivo o, ritornando in un clima di sfiducia e insicurezza globale, assistere alla fine della globalizzazione, la corsa al riarmo, la fine di collaborazioni su temi globali come il cambiamento climatico, la lotta al terrorismo, in sintesi uno sviluppo economico ridotto, ma anche una radicalizzazione del dibattito culturale e politico, conseguente alla divisione del mondo in blocchi.
L’articolo è stato pubblicato pochi giorni prima dello scoppio della guerra, quindi l’evento che l’autore sperava di evitare è purtroppo accaduto. Non solo, ma mentre alla prima lettura dell’articolo avevo l’impressione che Harari estremizzasse le due strade, riflettendo sulle reazioni che si sono già prodotte in tutto il mondo, mi sembra che la realtà sia ancora peggiore di quella tratteggiata da Harari: rapidi mutamenti nel senso della guerra fredda si stanno verificando in Germania, in Finlandia, in Svezia, in Medio Oriente, in Giappone. Tuttavia non penso che ci si debba rassegnare a considerare che la strada distopica sia ormai intrapresa senza speranze di recuperare la strada virtuosa che avevamo percorso negli ultimi settant’anni. Occorre allora interrogarsi su quale direzione la storia possa prendere e quali possono essere quelle per noi auspicabili e quelle che occorrerà cercare in tutti modi di non intraprendere.
Una prima riflessione mi porta a pensare alla necessità logica che Putin perda la guerra, nel senso che non possa trarne nessun vantaggio territoriale, affermando al contrario il principio della inammissibilità di conquiste territoriali mediante invasione. Quindi non solo si ritiri dalle posizioni occupate nel 2022, ma anche dalla Crimea e dal Donbass, che non ha ottenuto tramite trattati. Questa posizione trae forza anche da altre argomentazioni. La prima è che rendere inammissibili interventi armati mascherati con mercenari, soldati regolari in borghese o sostegno militare estero a movimenti irredentisti non riguarda solo l’Ucraina ma anche tutti i territori che furono sovietici e non lo sono più, non per una guerra ma per volontà delle loro popolazioni. Non solo, ma queste ingerenze possono portare a conflitti armati anche altrove nel mondo.
In modo simmetrico si dovrebbe assicurare solennemente che non sarà usata la violenza in qualunque forma per far cambiare opinione a tutti i paesi che accettino liberamente di preferire rapporti commerciali e diplomatici con la Russia, né si tenterà di espellere militarmente la Russia da enclaves come la Transnistria o Kaliningrad. La pace in Ucraina deve scongiurare anche la possibilità di nuove guerre.
Un’ulteriore argomentazione riguarda il concetto di deterrenza: se si conviene che le deboli reazioni occidentali ad azioni di conquista in Georgia, Crimea e Donbass sono da annoverare tra le cause che hanno indotto Putin a intraprendere l’avventurosa invasione Ucraina, la risposta che oggi va data all’aggressione deve essere ferma e compatta, non solo per solidarietà con l’aggredito, ma per scoraggiare future aggressioni.
Deve essere chiaro che quello che si è tracciato è un modello concettuale, in cui si è cercato di mettere in risalto quelle che si ritengono le relazioni logiche più importanti. La realtà è molto più complessa e non è detto che tutti gli attori coinvolti intendano conformare le proprie azioni a quel modello. La pace, verosimilmente, sarà influenzata e terrà conto della situazione sul campo, ma deriverà da un accordo fra attori che hanno un arco molto vasto e eterogeneo di priorità e non dall’annientamento di una delle parti in campo. Non si intende qui esaminare tutti gli esiti possibili (molti sono stati delineati in una serie di articoli su Foreign Affairs).
Ma, a mio avviso, tanto più il risultato si avvicinerà al modello delineato (nessuna conquista territoriale), tanto più ci si avvicinerà alla strada benevola descritta da Harari; al contrario tanto più Putin otterrà, tanto più ci si avvicinerà alla strada distopica.
Inoltre, tra i vari risultati possibili, sono rimasto molto colpito da una singolare simmetria tra due di essi, così diversi da essere quasi opposti, ma che producono un risultato pressoché identico.
La situazione in cui i pacifisti auspicano che l’Ucraina metta fine alla guerra capitolando o facendo concessioni territoriali che concedano a Putin di dichiararsi vincitore porta chiaramente alla strada distopica ipotizzata da Harari: tutti gli altri paesi, per nulla rassicurati continuerebbero ad armarsi, l’instabilità dell’Ucraina porterebbe prima o poi a nuovi confronti militari, non sarebbe possibile ridurre significativamente le sanzioni alla Russia, la cui economia intraprenderebbe la strada del declino; nel contempo il relativo successo militare di Putin lo incoraggerebbe a risolvere i propri problemi interni con nuove avventure all’estero.
Analogamente la situazione auspicata dai guerrafondai che ipotizzano e auspicano una guerra lunga che logori la Russia ha come diretta conseguenza che il mondo entrerebbe in una nuova “guerra fredda”; le sanzioni, sempre più gravi verrebbero mantenute, la globalizzazione si tramuterebbe in “friend-shoring”, si formerebbero blocchi compatti, senza storcere il naso se qualcuno dei “nostri” è un dittatore sanguinario. Un articolo di Foreign Affairs, scritto nel 2019 e riferito alle relazioni U.S.A. – Cina descrive sia a livello concettuale che con numerosi esempi pratici quanto sia sconveniente (per gli Stati Uniti innanzi tutto, ma più in generale anche per il resto del mondo) usare, nella situazione attuale, criteri usati con successo durante il periodo della guerra fredda e quanto sia invece auspicabile una competizione che non escluda la vigile (non ingenua) collaborazione in vari campi come i problemi ambientali, la sanità, l’antiterrorismo, nel quadro generale di relazioni multilaterali.
Il sentiero che ci potrebbe riportare sulla strada della pace solida e duratura e della prosperità inclusiva e sostenibile è estremamente stretto e circondato da scoscesi burroni. La Cina, finora, ha appoggiato la Russia e solo qualche sfumatura lascia intendere che questa guerra non le piaccia. Gli USA sono saldamente lanciati su una strategia che ha come primo obiettivo il contenimento della Cina con strumenti economici e militari, e la marginalizzazione della Russia, immemori degli insegnamenti di Keynes sul trattato di Versailles.
L’Europa, il principale soggetto che potrebbe portare gli USA a considerare l’opportunità di non saldare l’alleanza tra Cina e Russia e non riprendere la strada del mondo diviso in due blocchi, è purtroppo fortemente divisa. Tra l’altro i maggiori costi di una nuova guerra fredda sarebbero sopportati soprattutto dall’Europa. La peggiore delle due strade indicate da Harari è già intrapresa.
Per uscirne, è necessario che la Russia abbandoni presto le sue strategie (fantasie?) imperiali. Ma questo non può avvenire tramite una sconfitta militare o il crollo economico della Russia. A questo scopo non è sufficiente l’invio delle armi, essenziale per arrivare al tavolo delle trattative (non ci saranno trattative se l’Ucraina capitola), ma occorre anche una pressione diplomatica efficace. Al momento attuale non sembra che pressioni diplomatiche su l’aggressore abbiano il minimo successo, e d’altra parte è logico che paesi che si sono schierati nettamente (e giustamente) dalla parte dell’aggredito siano mal visti come mediatori. E poche concessioni possono essere fatte, in questo momento all’aggressore.
Occorre quindi evitare l’effetto tunnel, che porta a concentrarsi sull’Ucraina e sulla Russia, perdendo di vista o sottovalutando qualunque altra parte in campo. E’ necessario guardare altrove, come coinvolgere altri soggetti nella costruzione della pace e sulle conseguenti regole della sicurezza mondiale.
La Cina, in questo momento, è uno degli stati più interessati al proseguimento dello sviluppo economico, e, per vari fattori interni e internazionali sta sperimentando un certo rallentamento. E’ quindi possibile offrire qualcosa alla Cina che, finora, non si è macchiata di gravi aggressioni, che non a un soggetto impegnato in una sanguinosa sopraffazione.
Gli U.S.A. sembrano lanciati su un altro binario; può l’Europa fare qualcosa che li induca a considerare le linee tratteggiate dagli autori dell’articolo di Foreign Affairs citato?