Di Luciano Iannaccone
Articolo originariamente pubblicato su Landino.it
Salvini sta conducendo due guerre. La prima è di comunicazione e riguarda la lotta al “politicamente corretto”: sbarchi, ordine pubblico, “prima gli italiani”. Il consenso è molto alto: come si fa a non stare con la capotreno di Trenord, che vede il suo convoglio invaso da zingari e questuanti senza poter far nulla? Solo un sinistrismo ottuso può protestare. Si deve però dire che sul tema sbarchi Salvini fa la cosa più facile e non quella decisiva, che consiste nell’intervenire sui tanti irregolari espulsi o da espellere in giro per l’Italia e per l’Europa, troppo spesso intenti a delinquere. I centri per le espulsioni di Minniti non sono stati presi sul serio, Salvini ha bisogno dell’Europa perché è un problema comune ed invece si isola polemicamente sempre di più.
La seconda guerra che combatte, la decisiva, è quella contro la realtà, spalleggiato da Di Maio e da un gruppetto di ministri pentastellati (non tutti, naturalmente), destinati al banco degli asini in una ideale classe che raggruppasse i ministri della storia nazionale: mai così vergognosamente in basso. La realtà economica, sociale, internazionale ha però una scorza dura, che non viene scalfita dalle scempiaggini quotidiane. Salvini non è sciocco, sa che la vera guerra è la seconda, che non può vincerla e cerca consenso (crescente) con la prima, pronto ad elezioni anticipate prima che si manifestino gli insolubili problemi legati alle promesse elettorali acchiappavoti.
Per tentare di misurarsi con questa situazione drammatica i cittadini italiani devono innanzitutto cercare di capire meglio come e perché ci siamo ridotti così. La ricerca è aperta e vorrei contribuire con una modesta proposta di analisi storico-politica, necessariamente sintetica ai limiti dell’arbitrarietà e aperta ad ogni critica e contributo migliorativo.
Guardo agli ultimi quarant’anni di vita nazionale, nei primi quindici dei quali (come ho già avuto occasione di ricordare) le guerre partitiche finali della prima repubblica videro un irresponsabile aumento, in modo assolutamente prevalente a fini clientelari, della spesa pubblica corrente che portò il debito pubblico a raddoppiare in un quindicennio, superando il 120% del pil. Proprio quando l’evoluzione del quadro politico e culturale avrebbe reso possibile ridurre i ritardi e le contrapposizioni ideologiche, politiche, sociali ed economiche ( che non avevano però impedito il “miracolo economico”) ed approdare ad un assetto sociale, economico e produttivo che consentisse di affrontare le sfide del futuro, tema su cui ha scritto Michele Salvati, la lotta per il potere politico si tradusse in massicci ed irresponsabili trasferimenti corporativi ed infine in crisi finanziaria.
Sulla crisi economica-finanziaria dei primi anni novanta si innestarono sia la richiesta popolare di un rapporto più diretto e responsabile fra elettori ed eletti, la “stagione referendaria”, che le inchieste di “mani pulite”, che colpirono ed affondarono il primato della politica e dei partiti. Chi si trovò automaticamente al loro posto? Le “tecnostrutture” di cui ha scritto Angelo Panebianco, cioè il complesso articolato della dirigenza pubblica lato sensu: giudiziaria, amministrativa, economica, scientifica-culturale, con le “new entry” che la recentissima adozione dello spoil system (mutuato dagli Stati Uniti, anche se lì abolito alla fine del secolo XIX, come ci ricorda il professor Cassese) propiziava.
Con quali caratteristiche fondamentali? Innanzitutto, a causa della debolezza della politica, il primato assoluto della forma e delle formalità su ogni esigenza operativa. Era già un carattere proprio dell’operatività burocratica, ma divenne formalismo, cioè forma priva dei contenuti dell’azione politica di cui era stata fino ad allora veicolo, cioè della capacità di decidere. Da qui il ricondursi ultimativamente di ogni questione a un esclusivo giudizio di legittimità ed il proliferare dei relativi giudizi nelle varie corti. Da qui anche la tendenza inarrestabile al continuo e patologico elevarsi nelle procedure del livello di precauzione (non solo per autotutela), che ha condotto ad imporre un “mondo di carta”,oggi digitale, anzichè l’operatività e la snellezza necessarie a cittadini ed imprese, molti dirigenti a coltivare la propria indispensabilità nei processi legislativi e regolamentari e non pochi sostituti procuratori a sentirsi depositari delle politiche economiche nazionali, come ha scritto Sabino Cassese.
E’ decisivo precisare che il primato della forma non ha voluto dire rispetto delle regole, ma il suo esatto contrario: regole incerte perché in continua e contraddittoria espansione, remore e freno al lavoro, all’impresa (tendenzialmente non amata), alla vita sociale.
La seconda caratteristica è stata l’assunzione, da parte delle varie tecnostrutture, di una logica “correntizia”, che ha portato a subordinare gli interessi generali a quelli delle varie consorterie, desiderose di adepti e di strumenti con cui soddisfarli, dall’università alle correnti della magistratura alle cerchie di questo o quel governo o ministero o ente. In ciò il nuovo potere tecnocratico ha ereditato il metodo delle vecchie strutture partitiche.
Mentre era necessario il superamento dei ritardi del sistema socio-economico italiano per affrontare le sfide del futuro che stava diventando presente con la globalizzazione, il passaggio dal primato della politica a quello delle tecnostrutture ed ai loro formalismi uniti a gravi inefficienze operative, dalla giustizia alla scuola alla patologia burocratica, ha aggravato e consolidato la debolezza del sistema economico italiano, producendo la stagnazione del pil e della produttività nell’ultimo ventennio. Vincoli paralizzanti sull’economia ed il lavoro hanno condizionato negativamente anche le fasi politiche che avevano mobilitato il voto dei cittadini e che vanno dagli esiti della stagione referendaria alla “rivoluzione liberale” di Berlusconi alla scelta riformatrice ed europea dell’Ulivo. In esse la politica ha innalzato le proprie bandiere, ma è rimasta sostanzialmente debole ed inefficace. Mentre il variegato potere pubblico accentuava la tendenza statale già in atto di prendere e pretendere dalla società civile ed economica (molto) più di quanto si dava.
La maggiore stabilità istituzionale introdotta dai nuovi sistemi elettivi diretti a livello locale è stata progressivamente connotata in negativo dall’inarrestabile crescita burocratica anche locale del “livello di precauzione”, che ad esempio ha moltiplicato gli adempimenti, riempito gli uffici e svuotato le città della presenza di servizi pubblici. La “rivoluzione liberale” di Berlusconi e gli obiettivi dell’Ulivo e seguenti sono stati, in modi diversi, negativamente condizionati a partire dai vincoli progressivamente imposti all’attività economica e sociale ad ogni livello, a partire dalle piccole imprese. Ciò contribuisce a spiegare perché l’Italia per un decennio, fino al 2007, è cresciuta debolmente e perché la crisi del 2008 l’ha trovata significativamente esposta in termini di caduta dell’economia reale, con la conseguente inarrestabile crescita percentuale di un debito pubblico pure precedentemente ridotto in due riprese, particolarmente dai governi prodiani.
La crisi del 2011/2012, con l’avvento del governo Monti, non ha toccato, anzi rafforzato il ruolo e il “prelievo” delle tecnostrutture. I nodi sono comunque venuti al pettine nell’ultimo decennio, in cui alla crisi mondiale si è sommata dal 2011/2012 quella del debito nazionale, che ha ulteriormente compresso l’economia. Alla fine del 2018 solo poco più della metà del pil perso dal 2008 al 2013 sarà stato recuperato a partire dal 2014. E quando un tentativo, parziale ma positivo, di nuova centralità della democrazia politica, rappresentato dalla modifica costituzionale del 2016, è andato in porto con l’approvazione del Parlamento, il referendum che l’ha respinto ha visto fra gli altri alla testa del “no” le vestali del formalismo travestito da difesa della purezza costituzionale.
Si verificava intanto un fatto straordinario: trovava ampio consenso elettorale a partire dal 2013 un movimento politico che nella sua proclamata lotta al “sistema” si manifestava sostanzialmente come volontà di attuazione della logica burocratica-giudiziaria già al potere: dai plebisciti a nastro che eliminano il ruolo della democrazia politica rappresentativa al giustizialismo, dal controllo occhiuto della vita economica e sociale all’elogio della decrescita felice. Ma al tempo stesso, ora che è al governo, esemplarmente rivelatore della portata disastrosa e distruttiva della pura forma (“onestà!”) se priva dei contenuti, delle decisioni e del lavoro della società, dell’economia, della politica. Quindi bizzarramente parte significativa delle tecnostrutture sono idealmente alla testa di un movimento cresciuto nel rifiuto e nel rigetto dello stato di cose presente, quello governato ed egemonizzato dalle tecnostrutture stesse. Il rifiuto di se stessi.
Una situazione assolutamente paradossale, che rende complessa la situazione sotto il cielo, ma svela nel contempo l’articolata supremazia che ci deprime e con quale disinvolta dinamica si propaghi, condannandoci all’arretratezza.
Qui bisogna fermarsi, per sottoporre alla necessaria verifica critica l’analisi condotta. Se quest’ultima si rivelasse sostanzialmente fondata, il passo successivo sarebbe il tema dell’assunzione di una responsabilità collettiva, quella che trasforma gli individui in cittadini, responsabili di un destino comune. Qui in Italia, oggi. Nel rispetto dell’articolazione costituzionale è infatti necessario il ritorno della vera democrazia politica liberale e lo sgonfiarsi delle sue caricature e dei suoi surrogati. A cominciare da quello tornato oggi in voga che, a partire da una falsa ricostruzione storica nazionale, vuole la santa alleanza fra pentastellati e una sinistra pervicacemente arretrata, magari cementata dalla benevolenza di quelle tecnostrutture infastidite dalla “sparate” di Salvini.
E’ invece possibile costruire un’altra via tra lo statalismo cieco e il bonapartismo dell’Ortica.