Di Carmelo Marazia.
1. Partito politico e sistema elettorale
a. Unisco i due temi perché ne propongo una lettura congiunta. Concordo con Mario Rodriguez sulla necessità di dedicare al tema del Partito uno spazio di analisi e discussione, e per me anche di proposta. La consistenza dei partiti politici in Italia è così flebile che viene da domandarsi quanti ancora credano a questa formazione sociale. Bisognerebbe anche verificare il mito della sua sopravvivenza a destra (la Lega è leninista, FdI è una falange), e quanto invece anche non si tratti di gruppi temporaneamente composti sotto un unico brand, al momento vincente e quindi non messo temporaneamente in discussione.
Personalmente non credo esista altro strumento di mediazione tra cittadini e democrazia rappresentativa, e di partecipazione basata sul pluralismo, la condivisione e la discussione di programmi e scelte di governo. Purtroppo, la politica sta guardando poco ai cittadini (alias elettori), per cui siamo arrivati addirittura al timor panico per le elezioni. Su questo invece bisogna ammettere che la destra, anche quando è stata al governo, ha peccato meno in questo senso, naturalmente in modalità populista. Insomma, il tema è il consenso dei partiti.
b. Qui, a mio parere, si innesta il tema del sistema elettorale, e del mio consenso alla riproposizione dell’uninominale di collegio. Mi risulta che ogni sistema elettorale abbia i suoi limiti e distorsioni, si tratta di capire quali sono i più adatti per una determinata fase (non significa per quale elezione contingente e per quale forza politica). La determinazione di forti rappresentanti dei collegi mi sembra possa aiutare non solo l’identificazione dei cittadini con la rappresentanza, ma possa anche rafforzare la qualità del personale politico di un partito, fedele al partito che lo ha scelto ma anche ai cittadini che lo hanno votato, definendo la propria personale constituency. Sarebbe credo una cura ricostituente.
c. Sempre in tema di consenso e dialogo con gli elettori, aggiungo che se un partito vuole elettori, deve lanciare segnali comprensibili, non solo elaborare programmi che per essere seri saranno anche poco comprensibili per i non specializzati o i non appassionati (sempre che si tratti di un partito a vocazione maggioritaria). Qui parlo di quella “funzione segnaletica” dell’asse sinistra destra di cui parlano Segatti e gli altri autori de “L’apocalisse della democrazia”. Quindi l’altra cosa che i partiti di successo fanno è lanciare segnali identificabili sul proprio posizionamento, perché la gente che va a votare vuole collocarsi.
Da questo punto di vista “centro sinistra”, “liberal democratico”, e anche “riformista” sono cose che ormai dicono poco. Tutto questo per dire che agogno un partito di chiara denominazione di “sinistra” e “liberale”, che non è una cosa nuovissima, ma che sento pronunciata sempre sottovoce, chi per paura di compromettersi a sinistra (ma non credo, per es., che sia un problema degli amici cattolici), chi per paura di compromettersi con il “neoliberismo”.
2. Riforma della PA
Solo due parole su un tema che ha attraversato quasi tutta la mia vita professionale: la “Riforma della PA” non esiste. Vista la centralità del tema per i nostri guai, ognuno vuole intestarsi la riforma definitiva. Esiste solo un lavoro di miglioramento di lungo periodo che parta soprattutto dagli investimenti sulle persone della PA. Anche la semplificazione e la modernizzazione non la fai senza di loro. Il che non vuol dire semplicemente assunzioni di qualità, ma investimenti sulla formazione e sulla motivazione del lavoro pubblico, sul rispetto del ruolo della PA e, prima di tutto, dei ruoli di responsabilità (quei ruoli che il sindacalismo confederale è restio a rappresentare). Sono scettico che se ne possa venire a capo, perché viceversa la politica (e la sinistra, con il “primato della politica”) è in genere ancorata ad una visione esecutiva e strumentale dell’amministrazione, e al “sistema delle spoglie”. Bisognerebbe partire da questo elemento di consapevolezza, e bisognerebbe ascoltare e rafforzare la voce diretta degli operatori.
3. Il regionalismo italiano alla prova della pandemia
Non vi è dubbio che la Repubblica si è dimostrata piuttosto disarticolata nella gestione della pandemia (il “vestito di Arlecchino” secondo Sabino Cassese). Uno degli ultimi risultati è un’applicazione dei piani vaccinali che ha portato ad un ritardo nell’immunizzazioni delle categorie fragili considerate prioritarie, e ciò ha generato decessi (è sicuramente una delle ragioni della maggiore mortalità italiana) e sovraffollamento degli ospedali, che ha a sua volta generato ritardi nelle cure non covid. I cittadini hanno ancora una volta avuto la sensazione di godere diritti diversi a seconda della regione in cui erano residenti. La vera misura di quanto questo sia dovuto alla sovrapposizione delle competenze concorrenti in materia sanitaria, di cui al Titolo V della Costituzione, non so al momento dirlo. Sicuramente, come ha sottolineato Francesco Clementi su Il Foglio, le Regioni non hanno avuto remore a interpretare i propri poteri in maniera estensiva. Richiamo l’attenzione, comunque, su altri aspetti degni di nota.
a. Pur essendo esplicitamente prevista in costituzione la competenza dello stato in materia di “profilassi internazionale” lo Stato non ha esercitato questa competenza e tutto si è svolto in termini di continui tentativi di coordinamento con il consenso delle Regioni stesse, e in pochi casi con ricorsi a Corte Costituzionale e TAR, su singoli provvedimenti.
b. Nel confronto Stato Regioni ha svolto un ruolo fondamentale la Conferenza Stato Regioni, fondamentale ma improprio, come se fosse una seconda, o terza Camera (v. sempre Francesco Clementi su il Foglio). A me è sembrato che, senza confondere comportamenti diversi di singoli presidenti, complessivamente un organismo che è originariamente amministrativo, si sia posto come “secondo governo” del Paese, che tratta con il “primo governo”.
c. La querelle sulle isole “covid free” è stata l’ultima esibizione di un regionalismo competitivo, di una competizione, o contrapposizione, non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei confronti delle altre Regioni.
Penso alla Germania, vero Stato Federale, con 20 e più milioni di abitanti rispetto a noi e con 16 Laender. Anche lì si è posto un problema simile (in Germania la storia dei diversi principati è anche diversa), ma lì la Cancelliera ha risposto con un disegno di legge che permette, con un’incidenza di contagi di oltre celto su 100.000 abitanti, di centralizzare le competenze. Ma con il cancellierato tedesco vige la sfiducia costruttiva. Vuoi vedere che il problema vero l’hanno colto in certo qual modo i Turchi? I (presunti) governatori solo eletti direttamente dal popolo, Draghi no. Abbiamo venti unti del signore. Personalmente conto molto sullo standing e la capacità di concentrazione sugli obiettivi fondamentali del Presidente. Ma i Draghi passano, le epidemie sono una costante ciclica, le debolezze delle nostre istituzioni rimangono. Debolezza che io non vedo dell’istituzione regionale in sé, ma in una ideologia comunitarista e in una certa idea della sussidiarietà per cui lo Stato è per definizione lontano dai cittadini, le istituzioni “territoriali” per definizione sono vicine, anche quando questa vicinanza porta localismo, moltiplicazione dei centralismi, diseconomie di scala negli apparati.