Scienza e Politica. Cosa ci insegna la pandemia da coronavirus.

Scienza e politicaDi Francesco Franceschini.

1- INTRODUZIONE

Le lunghe giornate del lock down per il coronavirus ci hanno assuefatto a letture, trasmissioni televisive e riflessioni in cui scienza e politica si sono mescolate, a tal punto che non capiamo più chi ha ragione, chi sia opportuno che decida, che destino ci aspetta. La pandemia ha avuto, tra gli altri, l’effetto di rendere attuale un dibattito che è presente nella civiltà occidentale da almeno mezzo millennio, e che riguarda il rapporto fra il potere politico e la scienza moderna.
Il rapporto scienza e politica è piuttosto complesso, e riguarda diversi aspetti delle scelte delle due comunità di riferimento, cioè gli scienziati e i politici. Negli ultimi anni, dando un implicito valore alla scienza, il dibattito si è sviluppato soprattutto su quanto e come uno stato debba finanziare la ricerca la scientifica. Un altro tema molto dibattuto è stato quali siano i limiti “etici” della ricerca, sia in termini dei possibili usi dei risultati, vedi per esempio il dibattito sulla manipolazione genetica o sull’uso dei risultati della fisica atomica per costruire armamenti; sia sul processo stesso della ricerca, dove in molti Paesi vengono posti per legge limitazioni all’uso di animali o all’uso di cellule umane negli esperimenti da laboratorio.
L’analisi che segue, tuttavia, si concentra su uno specifico aspetto: sulle decisioni della politica, e quanto, e soprattutto come, esse siano influenzate dalla scienza, o meglio dalle conoscenze scientifiche e dagli scienziati che meglio le padroneggiano, prendendo come “caso” l’evento della pandemia di covid-19, dove un nugolo di virologi, epidemiologi, immunologi sono spuntati come funghi ( o meglio, sono assurti all’attenzione dei media), affiancandosi ai politici per determinarne le scelte di gestione.
Le domande di fondo che questa esperienza ha fatto emergere sono: chi, in definitiva ha il diritto e soprattutto il dovere di prendere le decisioni finali? Vi sono dei principi etici che dovrebbero essere applicati ai politici in termini di rispetto delle conoscenze scientifiche? Quali i problemi che emergono a fronte di conoscenze scientifiche parziali in quanto le ricerche sono in corso, e diversi scienziati fanno ipotesi diverse? E infine quali processi decisionali dovrebbero essere applicati quando diversi lati della scienza intervengono in fenomeni complessi, come nell’attuale caso del coronavirus dove virologia, medicina ed economia sono le scienze che dovrebbero essere prese tutte in considerazione per decisioni chiave come l’applicazione di lock down o le ripartenze successive?
Prima di tentare di dare delle risposte ai quesiti sopra elencati, facciamo un breve excursus nei reciproci ambiti della scienza e della politica per evidenziarne le caratteristiche e le differenze.

2- IL MONDO DELLA SCIENZA E QUELLO DELLA POLITICA

La comunità scientifica ha sue caratteristiche specifiche. Ciò che la guida è il culto della verità scientifica e del metodo per stabilirla; perciò è di sua natura internazionale. Chiunque fra gli umani riesca a dimostrare qualcosa con rigore si trasforma, salvo errori od omissioni che nella storia della scienza non sono mancati, in un collega che viene cooptato, indipendentemente dal passaporto, dalla razza, dal sesso, dalle posizioni politiche o dalle disponibilità economiche.
Naturalmente la comunità ha sue regole di inclusione (ed esclusione) e sue regole “gerarchiche”. A guidare questa “struttura” nella comunità scientifica è il principio della cosiddetta peer review, ovvero della valutazione dei lavori scientifici da parte degli appartenenti alla comunità, possibilmente di grado alto. Il grado alto lo si ottiene avendo avuto pubblicazioni e riconoscimenti (citazioni) in riviste di prestigio, che a loro volta sono di prestigio in quanto selezionano ed ospitano pubblicazioni di un certo livello. In altre parole il processo è di “cooptazione” sulla base del riconoscimento dei meriti scientifici da parte degli altri scienziati del mondo, che sono oggi numerosi, e perciò è piuttosto “robusto” (ovvero non è facile influenzarlo dall’esterno). La dipendenza dal fattore economico esiste nel senso che certe ricerche, se ben finanziate, hanno maggior probabilità di ottenere risultati di rilievo e di ottenere i relativi riconoscimenti. Dall’altra la comunità ha un encomiabile indipendenza dalle pressioni economiche e politiche, per via della estensione ed articolazione del network, dell’etica che è caratteristica di moltissimi scienziati di valore, del sentirsi una élite in un certo senso superiore che non si piega agli interessi di parti specifiche. Non sono mancate nella storia della scienza “scandali” di corruzione, dipendenza dai poteri politici od economici e probabilmente tuttora, trattandosi di una comunità di esseri umani, alcuni scienziati hanno comportamenti discutibili (e discussi!); tuttavia quando qualcuno piega i suoi risultati scientifici ad interessi esterni è quasi sempre smascherato dalla stessa comunità scientifica che prima o poi ne invalida i risultati. Possiamo assumere che fortunatamente oggi il potere della comunità scientifica internazionale è tale da garantire una sua sostanziale indipendenza. Qualche mela marcia a parte.
Il modo di operare della scienza consiste nel formulare delle ipotesi compatibili con le conoscenze esistenti nel proprio ambito di applicazione, e nell’adoperarsi per provare (o per “falsificare”, per dirla alla Popper) l’ipotesi in oggetto. Il tutto con metodo cosiddetto scientifico, cioè attraverso dati della realtà, meglio se generati in un ambito sperimentale controllato, ove possibile, e comunque trattato con modelli statistici atti ad identificare correlazioni significative o, meglio, rapporti causa/effetto. Il lavoro scientifico prodotto da uno scienziato (o da un gruppo di scienziati) viene dunque inviato ad una rivista scientifica dove, se pubblicato, viene letto e poi citato o viceversa criticato, confermato o falsificato da altri lavori di altri scienziati. Se alla fine si verifica un “consensus” su un determinato tema, conveniamo di essere di fronte a una verità scientifica. Se invece rimangono evidenze diverse, siamo ancora di fronte ad opinioni ed ipotesi diverse che devono trovare ulteriori validazioni. Possiamo dunque ben vedere che non esistono, se non per un numero finito di evidenze, verità scientifiche che abbracciano tutto quanto si discute in ambito scientifico; e quindi i politici non dovrebbero stupirsi se diversi scienziati anche prestigiosi dicono cose diverse su un dato tema, soprattutto se non consolidato: questo è insito nel dibattito scientifico, e dovrebbe essere ben chiarito, nel dialogo fra politica e scienza, ciò che è “verità scientifica” condivisa ed accettata dalla comunità scientifica e cosa è ancora una semplice ipotesi di alcuni scienziati, sia pur corroborata da ricerche non ancora pienamente convalidate.
Un’altra difficoltà insita nell’uso pratico dei risultati scientifici è che molti di essi sono applicabili ad ambiti più ristretti rispetto a quelli in cui, nella realtà, si trovano ad essere richiesti dai decisori politici. In altre parole la realtà è praticamente sempre ben più complessa di quanto è possibile spiegare con metodo scientifico, pur ammettendo che il progresso scientifico tende costantemente a chiarire zone precedentemente grigie. Ultima considerazione, molti risultati della scienza si esprimono in modo probabilistico, dalla posizione dell’elettrone attorno al nucleo dell’atomo, al fatto che una data medicina abbia gli effetti sperati (ed effetti indesiderati). Quindi chi voglia utilizzare tali risultati dovrebbe conoscerne le distribuzioni di probabilità e saperle trattare razionalmente nel processo decisionale.

Il mondo della politica ha logiche diverse da quello della scienza. Il principale obiettivo dei politici è l’ottenimento del potere e la sua amministrazione al fine di dettare delle regole ai cittadini che li hanno eletti. Nel migliore dei casi, ovvero nei regimi democratici, tale uso del potere dovrebbe essere indirizzato all’ottenimento del bene comune, o perlomeno al bene del segmento più ampio possibile di popolazione per guadagnarne il consenso che possa riconfermare al potere i politici che lo ottengono. Le decisioni dei politici dovrebbero quasi sempre tener conto contemporaneamente di diversi fattori: fattori di sicurezza, per esempio, fattori economici, fattori sociali, psicologici e culturali. Scelte valoriali entrano nei processi decisionali, attribuendo più peso a certi elementi che ad altri, nel senso che in linea di principio ciascun politico ha un’opinione di ciò che ha più o meno valore per gli elettori che lo sostengono, nonché ha i suoi propri valori etici. Le scelte di un politico perciò non possono solo limitarsi a ciò che è scientificamente vero, e men che meno a ciò che è vero per una sola disciplina scientifica, ma devono tener conto delle verità di diverse scienze, integrarle con ciò che non si sa dal punto di vista strettamente scientifico, magari surrogarlo con delle ipotesi e applicare delle ponderazioni valoriali. Se quanto descritto non fosse già sufficientemente complesso, aggiungiamo che vi è una differenza fra il bene comune reale e il bene comune percepito dai cittadini. Da qui la difficoltà per i politici nel perseguire per esempio delle scelte che siano il bene comune nel lungo periodo, spesso difficili da spiegare e da essere capite dai cittadini, a scapito di scelte che invece, più banalmente, erogano dei benefici di breve termine a tanti.

Fatta la debita distinzione fra i due ambiti, scientifico e politico, osserviamo che quanto più le scelte della politica riescono a tener conto delle conoscenze scientifiche, tanto meglio la politica potrà decidere anche a riguardo di quanto e come finanziare la ricerca scientifica stessa e di come fare il giusto uso delle scoperte scientifiche eticamente problematiche. Quindi il tema da noi scelto ha una sorta di primazia rispetto anche agli altri capitoli del rapporto fra scienza e politica.
Prima però di abbozzare le possibili condizioni che possano facilitare un rapporto proficuo fra scienza e politica nel processo decisionale, percorriamo nel dettaglio il caso della gestione della pandemia del coronavirus.

Ai nostri fini di descrivere come i processi decisionali della politica siano stati o meno influenzati dalla scienza, è opportuno suddividere l’evolversi della pandemia in quattro fasi: chiamiamo Fase 0 la fase che l’ha preceduta e dove vi erano solo ipotesi che una pandemia del genere potesse avvenire, ma non era ancora avvenuta. Chiamiamo Fase 1 la fase in cui la pandemia si è evidenziata e vi sono state le diverse reazioni difensive degli stati dove essa si è sviluppata.
Chiamiamo Fase 2 la fase in cui la pandemia si è affievolita e le misure di difesa hanno cominciato ad essere “rilasciate” per poter permettere alla vita sociale ed economica dei cittadini di ripartire. Definiamo Fase 3 la ripresa della pandemia nel mondo, diciamo a partire dall’autunno del 2020. La Fase 4, iniziata nel gennaio del 2021, è quella fase in cui si cominciano a distribuire i vaccini e convivranno, con percentuali in evoluzione, popolazioni vaccinate e popolazioni non vaccinate. Analizziamo inoltre le dialettiche emerse nei paesi occidentali democratici, in quanto non sappiamo cosa sia esattamente successo in Cina, luogo dove la pandemia ha avuto inizio, così come non abbiamo informazioni attendibili dall’Iran o dalla Russia, o anche dal Brasile, per esempio, paesi caratterizzati da governi autocratici.

3-IL CORONAVIRUS: LA PRIMA ONDATA (Fase 0, 1 e2)

Nella Fase 0 molti scienziati, soprattutto virologi ed epidemiologi, avevano già messo in guardia i governi e le opinioni pubbliche su rischi di infezioni virali pandemiche. Dei precedenti rilevanti sono stati la diffusione dell’AIDS, che ha provocato finora 30 milioni di morti, l’influenza AVIARIA, dove il salto di specie è sempre borderline dal 1996 quando ha cominciato a diffondersi nell’uomo a partire da Hong Kong, la SARS, Zika e più recentemente Ebola. Precedenti che stavano dimostrando per altro come questi episodi pandemici stessero aumentando di frequenza, e perciò, come le scosse iniziali di un terremoto, potessero essere presagio di un grande sisma in arrivo.
A Dancing Matrix, il libro di Robin Marantz Henig, dove l’autrice intervista numerosi virologi interrogandoli sul futuro delle pandemie che avrebbero interessato il pianeta, data ormai al lontano 1990 e il libro divulgativo sul tema, Spillover di David Quammen, oggi rivelatosi incredibilmente profetico, che ha previsto l’arrivo di una pandemia virale “big one” quale effetto di salto di specie dai pipistrelli, ha avuto la sua prima pubblicazione nel 2012!
Importanti opinion leader, come Bill Gates e lo stesso Obama quando era ancora presidente degli Stati Uniti, avevano riconosciuto pubblicamente che questo rischio per l’Umanità fosse reale, relativamente imminente e di entità superiore a molti altri rischi a cui andavamo incontro.
Il rapporto dell’OMS “Un Mondo a rischio”, che data solo di due mesi prima l’emergere in Cina del Coronavirus, mette in guardia tutte le nazioni del mondo da una pandemia da patogeni virulenti a rapida diffusione per vie respiratorie, sottolineando come il mondo non sia preparato ad affrontarla e sollecitando tutti i governi a correre ai ripari.

Eppure, all’arrivo del coronavirus, la maggior parte degli Stati mondiali sono risultati totalmente impreparati. Sono stati gli scienziati che non hanno suonato sufficienti campanelli di allarme, o è stata la politica sorda a tali campanelli, non volendo spendere danari per prevenire disastri solo ipotetici? Eppure, per prevenire rischi militari le Nazioni di tutto il mondo stanno sostenendo spese enormi in armamenti, ordini di grandezza ben maggiori che per proteggerci dalle pandemie.
Sarebbe facile addossare tutte le responsabilità ai soli politici: i politici sono generalmente profondamente ignoranti in questioni scientifiche ( con qualche eccezione come la Merkel in Germania, che per altro è stata fra le nazioni meglio preparate a gestire la pandemia) e perciò non riescono a configurare dei rischi legati al manifestarsi di fenomeni il cui studio dipende dalla scienza; essi negli ultimi anni sono inoltre incapaci di predisporre politiche che abbiano un orizzonte di lungo termine, in quanto estremamente condizionati da un’opinione pubblica che pare interessata solo a questioni contingenti, e dai media che esprimono tali opinioni, e la protezione sanitaria fa parte delle politiche a lungo termine; essi sono tradizionalmente adusi a reagire principalmente a questioni economiche e politico/militari, perciò a fronte di un rischio pandemia pensano solo di chiudere (parzialmente) le frontiere e non considerano che la diffusione di un virus ha modalità più sottili che non l’attraversare una frontiera su un mezzo pesante!
Che i politici, che hanno il potere decisionale di allocare risorse ed attivare programmi, nella vicenda del coronavirus abbiano responsabilità enormi, è difficile negarlo. Tuttavia avremmo una chiave di lettura sbagliata, e credo che potremmo addivenire a conclusione errate, se non considerassimo anche i comportamenti dell’altra parte della bilancia, ovvero quelli degli scienziati.
Come enunciato nel capitolo precedente gli scienziati di maggior calibro tendono ad attenersi alle conoscenze scientifiche “dimostrate” e pubblicate, non amano fare enunciati pubblici non rigorosi. Perciò, se da una parte lanciano allarmi generali del tipo “può succedere una pandemia”, “l’umanità è a rischio”, enunciati impossibili da falsificare, con estrema fatica rispondono a domande più circostanziate quali: quando la pandemia si realizzerà? Con che probabilità? Che conseguenze potrà avere? Le risposte a queste domande non rientrano quasi mai nell’ambito della scienza, perché dipendono da molti fattori anche non studiati, o comunque non ancora conosciuti o dimostrati, e si prestano ad essere contraddette dalla realtà; per cui gli scienziati si limitano a rispondere che non lo sanno, che non è serio prendere posizione, che devono essere i politici a prendere le decisioni necessarie. La conseguenza di questi atteggiamenti è che, se da un lato gli appelli degli scienziati vengono classificati alla fine dai politici di egual portata di quelli di Pierino che urla “al lupo, al lupo” dove poi il lupo non arriva, dall’altra gli scienziati, che pure in condizioni di incertezza e di conoscenze parziali potrebbero comunque formulare ipotesi più verosimili che non i politici e fare una valutazione del rischio più precisa per via della loro maggior conoscenza dei fenomeni, non hanno voce in capitolo!

Ed è così che alla fine il lupo arriva e scoppia la bomba pandemica del Covid-19!

Nella fase 1, in cui scoppia l’epidemia e i Paesi coinvolti reagiscono per proteggersi, ovvero nella fase “difensiva”, il rapporto fra le due comunità cambia. Inizialmente, i politici di ogni paese, ripetono con regolarità impressionante gli errori fatti dai loro colleghi politici dei paesi che sono stati aggrediti prima dall’epidemia: inizialmente la sottovalutano; iniziano col considerare il covid 19 poco più di una influenza; minimizzano la rilevanza dei primi morti, che sarebbero persone anziane destinate egualmente a morire da li a poco; sembrano più preoccupati di non diffondere il panico e di non fermare le attività del paese piuttosto che di fermare il virus; attuano iniziali provvedimenti leggeri, come l’isolare zone territoriali limitate ed indicare alle persone di seguire norme igieniche elementari, e le invitano a fidarsi delle autorità sanitarie del paese che hanno emanato tali norme; in alcuni paesi nascondono i dati reali per mostrare una situazione più rosea di quella che è realmente! Le modalità reattive all’inizio della fase uno sono tutte più o meno “sovraniste”, ovvero rifiuto o incapacità di imparare quanto successo nei paesi dove è avvenuto prima il contagio, espressione di un misto di ignoranza, presunzione, azione stereotipa con la pretesa che nel proprio paese si farà meglio che altrove, atteggiamenti che avviano il Paese colpito ad essere travolto dal virus. Una pandemia è come un grande incendio: se si fosse capaci di intervenire immediatamente isolando i focolai esistenti e spegnendo puntigliosamente fuocherello dopo fuocherello, lo si limiterebbe nei suoi danni; intervenendo però in ritardo e con misure inadeguate l’incendio divampa, si estende, e i suoi effetti finali sono enormemente più devastanti, sia in termini di vite umane che di danni materiali! E i politici pompieri sono intervenuti in ritardo e malamente praticamente ovunque. Possiamo raggruppare i paesi che forse hanno fatto meglio di altri, e qui mettiamo i paesi dell’estremo oriente, la Germania e piccoli paesi del nord Europa (Norvegia, Finlandia e Danimarca) e dall’altra quelli in cui i politici hanno fatto peggio, e qui purtroppo dobbiamo annoverare i paesi anglosassoni, USA e UK in testa, il Sudamerica con il Brasile di Bolsonaro, la Russia di Putin e Messico, Spagna, Francia e Italia (con l’attenuante che è stata la prima nazione dell’occidente ad essere aggredita dal virus).
Poi, quando il contagio non si ferma e i politici realizzano che gli ospedali non sarebbero in grado di trattare la marea di malati che chiedono aiuto, sono presi essi stessi dal panico! Non solo il sistema sanitario del loro paese si avvia a non essere più in grado di curare i contagiati, ma tutta la sanità si blocca, e nel paese viene a mancare la capacità di curare malati anche di altre patologie.
Ed è il panico che li spinge a rivolgersi agli scienziati per capire che fare. Formano “comitati scientifici” che prescrivano cosa fare per tamponare una situazione catastrofica da loro facilitata e che non sanno più controllare. Avvallano una immagine della scienza stereotipata, di chi dall’alto detta le nuove regole, operazione atta a scaricar responsabilità da sé stessi, e spergiurano davanti al popolo che stanno seguendo i dettami della “Scienza”, con la S maiuscola!
Gli scienziati dunque entrano in gioco: la loro prima reazione consiste nel tentare di convincere i politici che la faccenda è seria, e che bisogna intervenire con misure che limitino il contagio, anche se queste hanno effetti economici importanti. Essi sono impiegati per spiegare alla popolazione il perché delle misure e ad elargire le raccomandazioni su comportamenti privati, quali norme di igiene elementare e i principi del distanziamento sociale: la loro voce su questi punti è evidentemente più autorevole che non quella dei politici. Tuttavia il fronte degli scienziati, coinvolti o meno dalle istituzioni pubbliche, non è compatto, e questo è piuttosto comprensibile: del virus si sa poco, le ricerche di valore scientifico sono solo all’inizio, la sua “epidemiologia” è poco conosciuta, anche perché si ha il forte sospetto che dalla Cina non siano arrivate delle informazioni molto veritiere. Tirati però per il bavero dai politici e dai media, essi cominciano a sbilanciarsi, e nel formulare ipotesi, opzioni organizzative, previsioni, inevitabilmente, uscendo dallo spazio della loro sicura competenza, si esprimono uno diversamente da un altro. Forse, agli inizi della fase uno, il principale dibattito fra gli scienziati facenti parte dei vari comitati scientifici è stato la modalità di uso dei tamponi (solo ai ricoverati, ai pluri-sintomatici, ai sospetti, ai sanitari, a coloro che sono stati in contatto con infetti, a tutti!!). Ma questo è stato un dibattito organizzativo, non scientifico: se ci fossero stati materiali e risorse infiniti per poter fare i tamponi a tutti e ripetutamente, è evidente anche a chi non ha alcun titolo scientifico che sarebbe stato meglio farli a tutta la popolazione per identificare la totalità degli infetti ed isolarli. Ma a fronte di scarsità di tamponi è stato necessario definire delle priorità: prima i pazienti gravi e poi a cascata gli altri. Forse diversi scienziati hanno insistito diversamente da altri al fine di allargare la prassi dei tamponi, ma questo ha probabilmente più a che fare col carattere degli uomini (e donne) coinvolti in scelte operative che con la professione scientifica, che generalmente vorrebbe avere il maggior numero di dati possibile, e di miglior qualità possibile, per effettuare le sue ricerche. Altre discussioni fra scienziati sono avvenute nel corso di tutta la fase 1 riguardo alla gravità della malattia e alla virulenza del virus… Anche in questo caso le discussioni sono nate a fronte di un fenomeno ancora non conosciuto secondo i canoni scientifici e a fronte di ipotesi diverse, e si è avuto l’impressione che diversi scienziati si siano divisi più su un problema di etica della comunicazione al pubblico che su problemi scientifici in senso stretto: ovvero, è opportuno stressare maggiormente l’ipotesi che il virus non sia poi così virulento o che stia col tempo perdendo di virulenza, o è meglio comunicare alla popolazione il messaggio di seguire con rigore le regole impartite in quanto se prevalesse la credenza, non verificata, della decelerazione virale essa potrebbe assumere comportamenti imprudenti col risultato di far riprendere i contagi? E, visto che il vaccino era ancora lontano, non potendo fermare il mondo in sua attesa, si domandavano come poterci convivere.
Una considerazione a parte deve essere riservata alla presa di posizione iniziale di alcuni politici, con il supporto di alcuni scienziati, soprattutto nel mondo anglosassone, di accettare l’ipotesi che la pandemia non si possa fermare, e che perciò si debba lasciare che faccia il suo corso raggiungendo una diffusione tale da creare la cosiddetta immunità di gregge, che a questo punto l’avrebbe fermata. Tale posizione però si scontra velocemente contro il fatto che il numero di malati gravi si impenna immediatamente, e i posti nelle terapie intensive degli ospedali di tutto il mondo non basterebbero a curarli, generando una ecatombe difficile da sostenere in termini politici… perciò questa scelta, dai connotati essenzialmente “etici” (o poco etici…), è stata abbandonata da tutti i governi, influenzando però sottotraccia il rigore delle misure di contenimento.
Sia pur con qualche dissenso e qualche rivalità, alla fine gli scienziati sono stati ben più concordi fra di loro che non i politici. Ma nelle crepe delle discussioni fra scienziati si sono spesso infilati politici spregiudicati per forzare la propria tesi che non bisognasse ascoltare più di tanto le raccomandazioni degli scienziati (perché appunto si contraddicono) ed è meglio fare come dicono i politici (e generalmente dicono che sia meglio dare la priorità all’economia, piuttosto che alla pelle di quattro vecchietti per altro già sull’orlo della tomba).
Si accende dunque ancora una volta il dibattito che già aveva fatto ritardare l’applicazione di misure di contenimento della pandemia: quanto dobbiamo tener ferma l’economia e i consumi ad essa collegati? Ha senso cercare di non morire di virus e rischiare poi di morire di fame? Sull’onda di queste discussioni, e all’allentarsi della morsa della pandemia, ci si avvicina alla fase 2, dove si comincia a parlare di riaperture e di indebolimento delle misure di contenimento.

La cosiddetta Fase 2 richiede delle decisioni, da parte dei politici, di bilanciare le ragioni della sanità pubblica con quelle dell’economia. Gli scienziati virologi, epidemiologi, infettivologi, anestesisti ecc. si schierano dalla parte della sanità pubblica. Essi amerebbero vedere l’indice di contagiosità convergere verso lo zero, e così il numero di nuovi contagi e di morti giornalieri, prima di indebolire dei provvedimenti come il lock down che avevano contribuito ad abbassarli dai livelli tragici del picco pandemico; essi si sentono in un qualche modo come i generali dell’esercito che ha combattuto una guerra e vorrebbero vedere il nemico definitivamente sconfitto, e il pericolo che possa rialzare la testa definitivamente eliminato (o ridotto al minimo..). Sull’altro fronte si schierano gli imprenditori, grandi e piccoli, i liberi professionisti e gli economisti, che predicono con una certa precisione le perdite economiche nelle quali si incorrerà e la recessione che potrà esserne provocata. Nel mezzo i lavoratori dipendenti, che se da un lato desiderano riprendere a lavorare e temono per il proprio posto di lavoro, dall’altro hanno il timore, nel riprendere pienamente le attività lavorative, di restar contagiati. Gli stessi individui, cambiatisi i panni da imprenditori, liberi professionisti o lavoratori dipendenti, indossano quelli di cittadini e di consumatori, con la voglia di tornare alla libertà e ai consumi, ma frenati ancora una volta dalla paura. I politici, cercando di capire dove si muove il consenso, cercano di mediare le diverse istanze. Usano i comitati scientifici precedentemente costituiti per creare dei modelli matematici, altamente discutibili per altro, che simulano come a fronte di diversi gradi di riaperture e di indebolimento delle misure di contenimento possano alterarsi gli indici del contagio (l’R0, i nuovi contagiati, gli attualmente positivi per 10.000 abitanti, la tendenza della letalità…): così i politici possono dire agli elettori che andranno a riaprire con rischio “calcolato” (dagli scienziati), di modo che se succede che l’epidemia dovesse riprendere la responsabilità non è certo loro.
Alcuni scienziati, spaventati dall’evidenza che i modelli in questione hanno dubbia capacità predittiva in quanto non si conosce a sufficienza il comportamento del virus in diverse condizioni, argomentano, un po’ spaventati, che se si agisse imprudentemente si rischierebbe di riattizzare il contagio, e una seconda ondata pandemica significativa metterebbe di nuovo in crisi non solo la sanità pubblica ma anche la stessa economia per via delle misure che di nuovo si dovrebbero prendere. L’argomentazione in questo caso non è molto rigorosa: meglio fa la Merkel, dove in un suo lucido discorso ai cittadini tedeschi spiega che nella fase 2 si deve procedere come su una lastra di ghiaccio (metafora poco mediterranea) cercando di evitare che ceda, e questo si ottiene controllando passo dopo passo, rallentando o procedendo cautamente a seconda delle misure sulla sua tenuta (e qui gli scienziati mantengono un ruolo importante), perché se si avanza con prudenza ed aggiustando coi mezzi della scienza la velocità di tale avanzata si riesce a far ripartire l’economia. In effetti la chiave della ripartenza, non precisamente colta dalla maggior parte degli altri politici, se non quelli delle nazioni “virtuose” già nella fase 1, è che tanto più funziona un ombrello sanitario che permetta di affrontare i rischi della fase 2, tanto più arditamente ci si può inoltrare in essa. Ma sarebbe proprio un compito dei politici, assieme ai responsabili sanitari, e con la guida degli scienziati, il mettere a punto questo “ombrello sanitario”. Si tratta di aver potenziato ospedali, terapie intensive, medicina sul territorio assieme a test sierologici, tamponi in abbondanza, applicazioni mobile di tracciamento dei positivi; e poi ancora di aver scorte di materiali di protezione individuale, aver la disponibilità di strutture dove isolare i positivi da non ospedalizzare; ed infine la capacità di intervenire immediatamente a fronte di nuovi contagi, per isolare, controllare e curare i malati ed evitare ulteriori contagi.

Tuttavia i politici in questa fase sono troppo occupati ad intervenire sull’economia e sul lavoro per occuparsi delle quisquiglie di cui sopra, a meno che non abbiano messo a punto questo ombrello sanitario preventivamente nella fase 1: ma nei paesi non virtuosi generalmente ciò non è avvenuto, e si rischia di avventurarci alla cieca sulla lastra di ghiaccio della Merkel con l’alta probabilità di finire a far compagnia ai pesci artici! In questa fase avrebbero dovuto intervenire con più decisione gli scienziati, che hanno ben capito la questione, chiedendo a gran voce che venga realizzato l’ombrello sanitario, altrimenti non garantiscono il successo dell’operazione e non benedicono le navi che partono per l’avventura! Questo sarebbe stato un ruolo più importante che non quello di fare una continua paternale ai cittadini che trasgrediscono un po’ le regole rimaste nella fase due, in quanto la continua paternale può ben essere fatta dai politici questa volta, sindaci inclusi. Ma l’avere gli scienziati che ricordano loro di fare i compiti per proteggere i cittadini non piace ai politici, che adottano il comportamento di Pinocchio col grillo parlante, e cercano perciò, a questo punto, di diminuirne la visibilità, di dare maggior peso ad altri temi, se possibile di licenziarli (come ha cercato di fare, fallendo, Trump con Fauci in US) con la scusa che il peggio è passato e che adesso bisogna cominciare ad occuparsi di economia.

4- CORONAVIRUS: LA SECONDA ONDATA

Dopo una estate relativamente tranquilla in Europa (non nelle Americhe, dove non si è mai usciti veramente dalla fase 1), in Agosto/Settembre i contagi cominciano a riprendere, probabilmente per un mix di ragioni che includono la trasmissione virale amplificata dalle vacanze spensierate, la ripresa delle attività produttive e della scuola. Piuttosto che intervenire immediatamente a spegnere l’incendio, come molti scienziati chiedono, i politici, che faticano a rinunciare all’illusione che il contagio non sarebbe ritornato, adottano misure ininfluenti, che si inaspriscono man mano che il contagio cresce, ma sempre in misura insufficiente. Gli scienziati subiscono una forte pressione mediatica affinché non assumano posizioni troppo rigoriste, con i politici che ribadiscono che gli impatti negativi sulla economia sono ancora peggio che quelli sulla salute. Solo pochi scienziati hanno il coraggio di non piegarsi a questa propaganda e chiedono ad alta voce di applicare una linea di rigore quando il contagio è ancora relativamente gestibile, ma non sono ascoltati. La politica dell’inseguire il contagio è fallimentare, il tracciamento dei casi positivi diventa ingestibile e così scoppia una seconda ondata che come numero di contagi e come numero di morti supera la prima. Ancora una volta, solo quando si avvicina il rischio di bloccare gli ospedali, i politici intervengono con misure più rigorose, chiamando ancora una volta gli scienziati a spiegare alla popolazione perché lo si deve fare. Nonostante l’esperienza della prima ondata, la stupidità dei politici e la pavidità di molti scienziati (non ci sono altri modi per spiegarne il comportamento) lascia divampare un secondo incendio che provoca altre decine di migliaia di morti in ogni paese Europeo e altre ingenti perdite economiche che potevano essere evitate. Il libro di Ricolfi, La Notte delle Ninfee, ben spiega la dinamica di queste decisioni (o non decisioni) assurde.

La ricerca di vaccini e cure del coronavirus ha mobilitato una convergenza di energie e danaro nel mondo mai viste prima su sanità e ricerca scientifica. Questo sforzo, fortunatamente, ha cominciato col produrre risultati in quanto un certo numero di vaccini di elevata efficacia cominciano ad essere disponibili. Tuttavia la battaglia contro il virus è ancora lontana dall’esser vinta, e le sue prossime tappe saranno significativamente influenzate da scelte politiche.
Innanzitutto la disponibilità di vaccini, in questa fase iniziale, è inferiore alla domanda e questo, assieme alla necessità di organizzarne la somministrazione a tutta l’umanità induce a contemplare un tempo non piccolo per la loro applicazione. Inoltre vi sono gruppi di persone che per diversi motivi non potranno essere vaccinate, dai bambini (per ora), ai malati che possono avere controindicazioni gravi, ai no vax irriducibili. Poiché il virus è tuttora su livelli di diffusione alti, vi sarà un lungo periodo in cui tale diffusione dovrà convivere con i vaccinati. Questo indurrà, con una certa probabilità, a selezionare mutazioni resistenti ai vaccini, come molti scienziati stanno già prevedendo. In linea di principio, per vincere la battaglia, sarebbe necessario da un lato abbassare il più possibile la circolazione del virus, con lock down ancora più rigorosi di quelli finora fatti, e dall’altro accelerare il più possibile i processi di vaccinazione in tutto il mondo, e non solo nelle nazioni più ricche, allocando tutte le risorse possibili su tale obiettivo. Non solo, ma il sistema sanitario-scientifico dovrebbe organizzarsi per mettere in moto un imponente sorveglianza delle mutazioni e un modo per aggiornare di continuo, e velocemente, i vaccini a fronte di mutazioni rilevanti, nonché riorganizzarne la somministrazione: dovrà innescarsi, insomma, una corsa contro il virus!

Sapranno i politici del pianeta prendere decisioni lucide per condurre questa battaglia?

5-INSEGNAMENTI DEL COVID 19 SUL RAPPORTO SCIENZA E POLITICA

Cerchiamo di riassumere: una positiva collaborazione fra scienza e politica sarebbe stata molto opportuna per prevenire e combattere razionalmente la pandemia di covid 19, e sarebbe indispensabile per continuare la battaglia e vincerla definitivamente. Tuttavia tale collaborazione non c’è stata, o c’è stata solo parzialmente e in modo disomogeneo nei vari Paesi, per limiti ed errori di ambo le parti. Osservando come tale collaborazione si sta sviluppando nelle varie fasi del Covid 19, non cogliamo elementi di ottimismo: i politici, appena possono cercano di far a meno degli scienziati, perché sono obiettivamente scomodi, ricordano loro che devono fare un certo numero di cose che non “pagano” elettoralmente nel breve, e li criticano se non le fanno. Tuttavia, se succede una crisi favorita appunto dalle cose che non hanno fatto, i politici chiamano gli scienziati, offrono loro una notorietà provvisoria, e cercano di scaricare su di essi la responsabilità di scelte scomode per poi scaricarli quando la scomodità di tali scelte comincia a non essere più ben tollerata dai cittadini elettori. L’orientamento al breve termine e la non conoscenza dei principi della scienza da parte dei politici attuali, non ci fa indurre che saranno loro a promuovere una costruttiva relazione fra scienza e politica. D’altra parte gli scienziati non sempre esplicitano correttamente fin dove può aiutare la conoscenza scientifica propriamente detta, fin dove essi stessi esprimono solo opinioni, ipotesi e di conseguenza previsioni incerte e da verificare, e quali possano essere dei percorsi decisionali che per ruolo dovrebbero essere adottati dai politici, ma che siano compatibili con quanto sia conosciuto dagli scienziati e sia ragionevolmente prevedibile sulla base di ciò che conoscono! E il fatto che gli scienziati non fanno abbastanza in questa direzione deriva dallo scarso attivismo che gli scienziati stessi esprimono come comunità in questioni che esulano dai loro percorsi di carriera specifici, ma che dovrebbero coinvolgerli in quanto “élite” necessaria per indirizzare correttamente le scelte dell’umanità. Dovrebbero perciò essere gli scienziati a promuovere tale collaborazione con modalità più “robuste” di quanto fatto finora.

La via più solida per una proficua collaborazione fra le due comunità sarebbe l’aumento delle conoscenze scientifiche da parte dei politici, nonché lo sviluppo dell’imperativo morale di tener conto della scienza per le decisioni che riguardano il futuro dell’umanità. Da parte degli scienziati dovrebbe svilupparsi una maggior consapevolezza della responsabilità che, in quanto élite con una conoscenza superiore dei fenomeni naturali, essi hanno nei confronti del resto del mondo.
Sarebbe tuttavia anche opportuno, a mio avviso, un intervento istituzionale nelle democrazie occidentali, che dia maggior potere agli scienziati.

Una soluzione potrebbe essere quella di costituire delle “autority” scientifiche multidisciplinari permanenti, che possano essere estese a fronte di problemi specifici, che rispondano, come l’esercito o le corti supreme, ai capi di stato (e non ai governi che li possano condizionare). Queste autority dovrebbero avere il potere di chiedere lo stato di emergenza al capo dello stato, a fronte di rischi per la popolazione e di obbligare i governi a prendere determinati provvedimenti per attenuare tali rischi. Questo potrebbe essere utile per gestire la lunga battaglia del Covid, eventuali altre epidemie, rischi ambientali o sanitari di vario tipo che potranno verosimilmente ancora presentarsi in questo difficile secolo.

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