Salario minimo e pensioni

Articoli di Marco Leonardi.

Due eventi della scorsa settimana – la pubblicazione della relazione del CNEL sul salario minimo e la pubblicazione della sentenza della Cassazione sull’inadeguatezza del salario di un lavoratore che era ricorso in tribunale – hanno permesso di chiarire quello che era inevitabile fin dall’inizio. Che l’introduzione di un salario minimo per legge in Italia può avvenire solo a seguito di una vittoria elettorale e di un mandato popolare. Come del resto è avvenuto in tutti i paesi dove il salario minimo è stato introdotto di recente, in UK, in Germania ma anche in Sud Africa. Illusorio è il tentativo di PD e 5S di imporre una soluzione così importante nell’economia dei un paese come il salario minimo con l’accordo di tutti soprattutto perché fino all’anno scorso non erano d’accordo neppure tra di loro. Fino all’anno scorso la relazione del CNEL sarebbe stata votata da tutti i sindacati inclusa la CGIL che oggi invece si è opposta.
La relazione del CNEL mette in evidenza tre cose. Che il tasso di copertura della contrattazione collettiva si avvicina al 100%. Che i contratti pirata alla fine riguardano solo poche migliaia di lavoratori e che, senza nessun bisogno di una legge sulla rappresentanza, già oggi il Cnel attraverso una verifica amministrativa in collaborazione con l’Inps e l’Ispettorato nazionale del lavoro può segnalarli al ministero e alle parti sociali. Che al 1° settembre 2023 risulta che al 54% dei lavoratori dipendenti del settore privato si applicano Contratti collettivi nazionali di lavoro tecnicamente scaduti. La conclusione ampiamente scontata è che non c’è nessun bisogno del salario minimo legale in Italia. Conclusione scontata visto che sia Brunetta sia Tiraboschi (il coordinatore della relazione) sono sempre stati contrari al salario minimo per legge e strenui difensori della contrattazione collettiva. La contrattazione collettiva, quale sede storica della dialettica tra istanze economiche e sociali del mercato del lavoro, non è infatti, secondo la Commissione, un semplice equivalente di una contrattazione economica individuale, ma piuttosto una vera e propria istituzione “politica”.

Articolo pubblicato da Il Foglio: Salario minimo, contrattazione collettiva e tribunali (pdf).

Articolo pubblicato da Il Foglio: Pensioni, il limite delle quote (pdf).

Questo articolo in realtà è sulla legge di bilancio.
Il governo promette un debito appena stabile per tre anni. Ma dall’operazione sulle pensioni si vede non solo che la legge di bilancio è un ennesimo calcio alla lattina per spostare i problemi in là ma che anche le soluzioni proposte sono in direzione sbagliata. Sulle pensioni nessun governo degli ultimi 10 anni ha proposto soluzioni efficaci (tranne forse l’anticipo sociale APE che come soluzione infatti è ancora in piedi dopo 7 anni) ma un governo politico che pensa di durare 5 anni deve mostrare una via d’uscita a questo continuo procrastinare. Se non vogliono farlo è perché sperano di mantenere viva la promessa di quota 41 rischiando di compromettere il fragile equilibrio del debito.
L’anno scorso avevo scritto questo che rimane valido anche per questo anno: “In attesa della eterna promessa della riforma delle pensioni, il governo in legge di bilancio ha fatto 4 interventi: la sostituzione di quota 102 con quota 103; una nuova versione molto più restrittiva di “opzione donna”; l’aumento delle pensioni per i pensionati con più di 75 anni. Il tutto finanziato con il taglio della rivalutazione delle pensioni superiori a 2100 euro mensili. Probabilmente per insipienza queste 4 operazioni produrranno nel 2023 il minor numero di pensionamenti anticipati di tutti gli ultimi anni”. La previsione si è rivelata facile e giusta (solo 10mila uscite), e meno male(!), aggiungiamo noi, per le finanze pubbliche. Cosa c’è che non va allora? Il principio delle quote non va. Quest’anno quota 103 diventa quota 104 e opzione donna viene di nuovo penalizzata.
Tutti i governi dal 2015 in poi si sono posti il problema di come addolcire la riforma Fornero. I principi sono stati due: chi fa lavori usuranti (per cui c’è la prova che la longevità media è inferiore) ha diritto ad un anticipo pagato dallo stato; chi invece vuole uscire prima e se lo può permettere è giusto che paghi con una penalizzazione che porta il beneficiario da subito dentro il sistema contributivo che è quello che useremo tutti tra 10/15 anni. Da quando sono arrivate le quote con quota 100 il principio è diverso: si cerca di dare un anticipo gratuito a tutti con i requisiti delle quote scaricando i costi dell’aggiustamento al sistema contributivo sui “giovani” che inizieranno ad andare in pensione tra 10/15 anni (e promettendogli ogni anno una integrazione al contributivo che non arriva mai e che non serve a nulla se il contributivo non si applica da subito a chi vuole anticipare).

Come volevasi dimostrare, la versione promettente di quota 104 con ricalcolo contributivo ha retto meno di 1 giorno.
La versione di quota 104 con ricalcolo contributivo è segnale importante, lo ho scritto qualche giorno fa sul il Foglio. Chissà se resisterà al caos della manovra, per esempio sul taglio del cuneo fiscale e contributivo dei lavoratori dipendenti fino a 35mila euro hanno già cambiato idea due volte.
Su Airbnb al 26% è sbagliato tassare tutti i comuni in maniera uniforme: la maggior parte dei comuni ha bisogno di più affitti brevi per rilanciare il turismo, in alcune grandi città è diventato un problema enorme che rischia di modificarne il modello di sviluppo.
Due articoli recenti per capire cosa sta succedendo nella legge di bilancio.

 

Il Governo ha una carta segreta sul PNRR (articolo del Foglio).
Il partenariato pubblico-privato, questo sconosciuto
La recente sentenza del consiglio di stato che mette in dubbio la legittimità dell’affidamento dei lavori per il polo strategico nazionale (l’infrastruttura tecnologica che mette in comune tutti i dati della PA) non deve necessariamente mettere in dubbio l’utilizzo dello strumento del partenariato pubblico-privato (PPP). Anche perché, grazie a una norma PNRR, la sentenza contrariamente al solito non blocca l’esecuzione dei lavori. Bisogna usare però alcuni caveat.
Quando un ente pubblico non ha abbastanza soldi o competenze specifiche per costruire un’opera pubblica, può utilizzare il PPP invece del tradizionale contratto di appalto. Nel PPP pubblico e il privato cofinanziano un’opera pubblica e poi il pubblico paga il privato per la gestione successiva. Il PPP è stato utilizzato per realizzare numerosi investimenti (alcune tratte autostradali, metropolitane, ospedali, parcheggi, termovalorizzatori, ecc.) e alcuni importanti progetti del PNRR, come ad esempio il Polo Strategico Nazionale, la piattaforma di Telemedicina, le infrastrutture tecnologiche del Ministero dell’Università, piuttosto che l’efficientamento energetico del Teatro alla Scala di Milano, l’Ospedale Gaslini di Genova
Il PPP – se usato bene- può aiutare l’Italia a superare le difficoltà di spesa per investimento che la caratterizza. Purtroppo però in alcuni casi, il ricorso al PPP è stato fonte di ritardi, di contenziosi o di potenziali default dei bilanci degli enti locali, alimentando perplessità sulla possibilità di uso dello strumento stesso. Il PPP è uno strumento complesso in cui l’ente pubblico per guadagnarci deve essere in grado di mettere i rischi dell’opera (il rischio di costruzione ma anche quello di domanda cioè se l’opera avrà un numero insufficiente di utenti paganti) in capo all’operatore privato. Questo spesso non accade perché i legittimi profitti dei privati prevalgono sull’interesse pubblico e i contratti di PPP tendono ad essere più vantaggiosi per i privati che per la PA. Spesso nella Pubblica Amministrazione mancano competenze specialistiche e figure professionali dotate di approccio manageriale, tecnico-ingegneristico, legale, finanziario etc..

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