Riformare il capitalismo, oltre il mito del «valore per gli azionisti»

di Lorenzo Sacconi da “la Rivista delle Politiche Sociali / Italian Journal of Social Policy, 1/2014”

Il modello di impresa socialmente responsabile e la sua governance democratica e multi-stakeholder

Il modello dello «shareholder value», che ha egemonizzato il trentennio neoliberale nei paesi anglosassoni, ha fallito essendo responsabile della crisi iniziata nel 2007-2008, a causa degli effetti sulle diseguaglianze e le ipotesi errate circa la razionalità dei mercati finanziari e gli schemi di incentivazione dei manager.
Il modello dell’impresa socialmente responsabile, basato sulla governance multi-stakeholder e democratica, generalizza idee tratte dal modello di «gerarchia di mediazione imparziale», dalla co-determinazione tedesca, e dalle esperienze di Rsi. Secondo questo modello, chi governa l’impresa ha doveri fiduciari estesi verso tutti gli stakeholder, e la clausola fondamentale è consentire l’equa partecipazione al surplus da parte degli stakeholder essenziali, minimizzando gli effetti esterni negativi sugli altri. La sua superiore efficienza è qui dimostrata in termini di economia dei costi di transazione (e quindi produttività) in presenza di investimenti specifici molteplici, risorse cognitive complementari e rischio di abuso d’autorità. Se non si integra la corporate governance multi-stakeholder nel contratto sociale per la giustizia distributiva, sarà sempre impossibile evitare il «paradosso della tela di Penelope» secondo cui la tela dall’equità, tessuta dal welfare state, viene sempre disfatta dall’abuso di autorità nell’impresa.

1. Non uno, ma molti modelli di impresa

Le imprese non sono dati naturali immutabili. Esse sono istituzioni umane create attraverso una molteplicità di decisioni, che evolvono attraverso meccanismi di adattamento molecolare – fino a costituire regolarità di comportamento in equilibrio, sostenute da «modelli mentali condivisi» e aspettative reciproche concordanti –, e risentono dell’affermarsi di norme sociali. Al contempo le norme in base alle quali esse sono create sono oggetto di scelte collettive, accordi su principi e valori, disegno consapevole di norme giuridiche, siano esse imperative oppure soft law. Tali principi e valori operano come selettori di certe forme istituzionali, ne scelgono alcune tra le molte possibili, e ne pon- gono altre in secondo piano. In altre parole, hanno prima di tutto un contenuto normativo poiché guidano il comportamento dei diversi agenti che creano le imprese e interagiscono con esse, e inoltre generano le aspettative sui comportamenti di altri agenti (in accordo con tali prin- cipi), a cui i comportamenti dei primi reagiscono. Questa funzione normativa gioca un ruolo nelle situazioni di cambiamento istituziona- le, quando assetti esistenti possono essere destabilizzati da dinamiche endogene, oppure da shock esogeni, e quindi può darsi una situazione di cambiamento e selezione di un nuovo equilibrio istituzionale (Aoki, 2001; Sacconi, 2013a).

Le istituzioni di cui qui parliamo sono le forme di governo (corporate governance) delle imprese. Da tempo le istituzioni del capitalismo italia- no sono sollecitate al cambiamento, data l’inadeguatezza del loro as- setto: molte piccolissime imprese a controllo famigliare che stentano a crescere e a fondersi – prevalentemente per sfiducia reciproca – e non reggono l’impatto della crisi; poche grandi imprese con azionariato diffuso – in gran parte frutto della privatizzazione delle ex partecipa- zioni statali e del sistema bancario – che non hanno ancora trovato un assetto del tutto consolidato, come dimostrano i ricorrenti cambi di controllo in Telecom, i piani di ulteriore privatizzazione, le polemiche sul controllo delle reti e delle banche ecc.; alcune migliaia di imprese medio-grandi che competono efficacemente a livello internazionale entro nicchie di mercato, il cui assetto – a cavallo tra azienda famiglia- re e qualcosa di più ampio, in cui avvalersi del mercato dei capitali o del credito, ma salvaguardare le competenze cognitive e umane essen- ziali, che ne hanno garantito il successo – non è del tutto risolto; aziende che dovrebbero garantire la gestione dei servizi pubblici locali e dei beni comuni che, in coerenza con l’esito referendario, non possono più avere un assetto capitalistico. Il declino della grande industria tra- dizionale che ha fatto la storia del capitalismo famigliare italiano, ap- parentemente incapace, in mancanza di controbilanciamenti, di trova- re risposte alternative alla cessione o alla delocalizzazione. La crisi del 2007-2008 mette finalmente sul piatto la possibilità di considerare forme istituzionali dell’impresa alternative. Non è perciò troppo am- bizioso pensare ad un modello di impresa coerente con i principi di una politica democratica e compatibile con la missione di rappresen- tanza degli interessi generali dei lavoratori tipica del sindacato confe- derale (vedi anche Sacconi, 2013b).

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