Articolo di Carlo Fusaro pubblicato da Libertà Eguale.
Così com’è stato annunciato (ancora non è stato presentato a una delle due Camere), il progetto Meloni-Casellati di modifica della nostra forma di governo è semplicemente invotabile.
Scritto coi piedi, contiene contraddizioni tali da renderlo non tanto impraticabile e contraddittorio quanto di dubbia funzionalità rispetto ai pur sacrosanti obiettivi che si propone di conseguire.
Che dopo quarant’anni di sforzi (fin qui vani, ma anche dignitosi) di dare all’Italia istituzioni di governo più stabili, più omogenee e in due parole più efficienti (nel senso di meglio in grado, a parità di personale e cultura politica: questo è il punto!, di perseguire quelle politiche di lungo periodo delle quali c’è tanto bisogno), sia stata partorita una proposta così asfittica, così minimale in alcune disposizioni, tanto tecnicamente modesta, è motivo di sconcerto e umilia prima di tutto i riformisti, fornendo argomenti fin troppo facili ai conservatori istituzionali di ogni risma e parrocchia.
Ma siccome sono decenni che il prioritario problema istituzionale italiano resta quello che il progetto dice di voler affrontare, è bene prendere comunque in parola le buone intenzioni dei proponenti: e da riformisti assumerci l’onere di dire come quel testo può e deve essere migliorato. La buona notizia è che ciò sarebbe, volendo, sia tecnicamente sia politicamente possibile.
Nelle righe che seguono mi propongo di fare esattamente ciò. Non prima di aver visto rapidamente: a) origine e ratio del modello cui il progetto si ispira; b) i caratteri delle forme di governo della transizione italiana dai primi anni Novanta ad oggi; c) le reazioni, come si vedrà contraddittorie, che il progetto ha suscitato (chi lo stronca perché il vertice del governo sarebbe troppo forte, chi perché sarebbe troppo debole). Seguono infine, d) le proposte per rendere percorribile la riforma.
Premessa
Il governo democratico per funzionare deve essere stabile. Un regime democratico che non riesce a darsi un governo che governi, alla lunga è condannato. Le dittature (e l’Italia come la Germania ne furono esempio) non nascono dall’eccessiva forza, ma dalla debolezza dei regimi democratici. Da noi, ma ormai anche altrove, «il problema è questo: come si fa a far funzionare una democrazia che non possa contare sul sistema dei due partiti…, ma che deve funzionare sfruttando o attenuando gli inconvenienti di quella pluralità di partiti la quale non può governare altro che attraverso un governo di coalizione?» (Piero Calamandrei, alla Costituente, 5 settembre 1946: egli non era convinto che in regime parlamentare ciò fosse possibile, e infatti fu favorevole a quello presidenziale). Beh: questo problema l’Italia repubblicana se lo porta addosso dalle origini e non l’ha mai davvero risolto.
Quali modelli per dare forza e stabilità al governo democratico
Non solo in Italia, in contesti simili, le strade concretamente battute sono state due. Ed entrambe hanno ascendenti francesi: la Quarta Repubblica (1946-1958), come del resto la Terza (fino a Vichy, 1940) ebbe problemi del tutto analoghi ai nostri con altrettanto grave instabilità. Lasciato da parte il presidenzialismo in senso stretto (per intenderci, tipo Usa: pari legittimazione elettorale dell’esecutivo e del legislativo con rigida separazione giuridica dei poteri) che in Europa non ha mai attecchito, e sempre partendo da una base di regime parlamentare (fondato sul rapporto fiduciario fra esecutivo e legislativo: il primo potendo operare solo nella misura in cui il secondo glielo consente), c’è chi ha puntato sul rafforzamento del capo dello Stato (dotato di poteri significativi e – per lo più – di legittimazione diretta) e chi ha puntato sul rafforzamento del governo, e segnatamente del primo ministro. La prima soluzione fu imposta in Francia – in ultimo – da Charles de Gaulle e ne nacque il c.d. semi-presidenzialismo della Quinta Repubblica (che regge da quasi 70 anni). La seconda fu pensata, a sinistra, dal costituzionalista e politologo Maurice Duverger che infatti propose (già nel 1956) l’elezione diretta del primo ministro (contestuale all’elezione dell’assemblea politica). Quest’idea fu rilanciata in Italia dal costituzionalista bergamasco Serio Galeotti e poi ripresa primo fra tutti da Augusto Barbera e ben formulata nel 1997 da Cesare Salvi, presidente del Comitato sulla forma di governo della Commissione D’Alema: la terza ed ultima bicamerale per le riforme. Non è un caso che su queste due ipotesi ci si divide almeno da trent’anni. Entrambe infatti sono accomunate dal rispettare le tre regole dei regimi democratici contemporanei enunciate dal celebre costituzionalista, sempre francese, Georges Vedel: 1) il vertice monocratico del governo deve avere legittimazione diretta, formale o sostanziale; 2) quel vertice è primariamente (anche se non esclusivamente) responsabile davanti al corpo elettorale; 3) l’opposizione in Parlamento (e non solo) ha un ruolo decisivo che va riconosciuto.
Le forme di governo della transizione italiana
Sotto la spinta riformista (per via prima di tutto referendaria) dei primi anni Novanta, fra il 1992 e il 1999, l’Italia ha trovato la forza di adottare, a livello sub-nazionale, una significativa variante del modello Duverger. Mi riferisco ovviamente alla elezione diretta del sindaco (e finché ci fu del presidente della provincia) e all’elezione diretta dei presidenti delle Regioni: le riforme di maggior successo degli ultimi decenni che hanno garantito stabilità e responsabilità davanti ai cittadini dei governi comunali e regionali. Si tratta di un modello che si caratterizza per questo, anche rispetto all’originale ipotesi francese: l’elezione di sindaci e presidenti avviene non solo contestualmente all’elezione del consiglio, ma essa determina l’attribuzione alle forze politiche che sostengono la candidatura vincente di una sicura maggioranza nell’assemblea rappresentativa. Quest’ultima mantiene la possibilità di mandare a casa il sindaco o presidente demo-eletto, ma al prezzo di dar luogo a nuove elezioni (per il vertice dell’esecutivo e per il consiglio). Si tratta della formula cosiddetta simul simul (simul stabunt simul cadent). Un formidabile meccanismo di stabilizzazione che ha funzionato. Da quando è stato introdotto, per esempio a livello regionale, l’85% delle legislature sono andate in porto regolarmente (a livello statale siamo a sole 9 su 18, il 50%). Di qui la proposta, un po’ grossolana ma efficace, del “sindaco d’Italia”: cioè l’idea di estendere il modello comunale e regionale, nelle sue caratteristiche principali, alle istituzioni politiche nazionali (fra le quali però c’è la figura presidenziale, distinta dal vertice dell’esecutivo, che ai livelli sub-nazionali non c’è).
La bozza Casellati-Meloni
Il progetto deliberato in Consiglio dei ministri il 3 novembre 2023 prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio, e prevede anche l’attribuzione di una maggioranza pari al 55% complessivo dei seggi a vantaggio delle liste e dei candidati collegati al candidato eletto. Nel contempo mantiene il nome di “presidente del Consiglio” (non “primo ministro”) e alcune delle vigenti disposizioni costituzionali in materia di fiducia, a partire da quella iniziale (in ciascuna delle due Camere, ovviamente: il bicameralismo indifferenziato non viene ahimé toccato). Inoltre prevede una sorta di doppia deroga alla clausola simul simul: a) in occasione della formazione del primo governo della legislatura si prevede che il presidente del consiglio che non abbia ottenuto la fiducia per il suo governo, possa ripresentarsi una seconda volta alle Camere; b) in caso di sfiducia nel corso della legislatura o quando per altre ragioni il presidente del Consiglio eletto cessi dal suo incarico (per dimissioni si presume: non può valere in caso di impedimento permanente, morte o decadenza) è consentito al presidente della Repubblica di rinominarlo o anche di nominare altro parlamentare (si noti: parlamentare) eletto in collegamento con l’uscente, dando vita a un nuovo governo cui le Camere votino la fiducia (a maggioranza semplice). Se questo secondo governo non la ottiene o cessa per qualsiasi ragione, segue lo scioglimento delle Camere. Il progetto prevede poi l’abolizione (pro futuro) dei senatori a vita di nomina presidenziale.
Le reazioni
Il progetto Casellati-Meloni ha ovviamente suscitato ondare di reazioni. Intanto quelle negative a prescindere di quanti contestano la necessità stessa di rafforzare l’esecutivo (una significativa minoranza) e soprattutto sono radicalmente contrari a qualsiasi forma di legittimazione diretta da parte dell’elettorato (C. Galli, De Minico, Zagreblesky). Poi quelle negative nel merito perché pur dicendosi (in astratto) favorevoli a dare più stabilità e forza al governo, ritengono che l’elezione diretta del presidente del Consiglio indebolisca troppo il ruolo del presidente della Repubblica e anche quello del Parlamento (stravolgendo secondo taluni il nostro regime parlamentare: Amato, Azzariti, Cheli, Luciani, Parrini, Volpi). Questo è un punto cruciale. Siccome in questa materia tutto si tiene, non si può dire di volere uno esecutivo più stabile e forte e poi al tempo stesso pretendere che gli altri organi costituzionali mantengano intatte tutte le loro prerogative sia quelle previste in Costituzione sia quelle affermatesi in via di prassi nel tempo. L’esempio del presidente della Repubblica è lampante: che la figura presidenziale abbia conosciuto un notevole rafforzamento negli ultimi decenni, ben al di là della lettera della Costituzione e delle aspettative dei padri costituenti, mi pare pacifico. Al punto da indurre molti a ritenere che sarebbe opportuno eleggerlo direttamente per coniugare legittimazione e responsabilità. Ma se del presidente si tratta di mantenere il ruolo acquisito negli anni di gestore delle crisi quale “utile scappatoia” all’insegna dell’idea che si tratti di un “tutore del quale non riusciamo a fare a meno” (Italy’s nanny come scrisse l’Economist), allora smettiamo senz’altro di parlare di presidenti del Consiglio più stabili e più forti! Qualsiasi innovazione in quella direzione non potrà che ridimensionare il ruolo assunto in più occasioni dai presidenti degli ultimi decenni (ma non iscritto nella, anche se non impedito dalla, Costituzione del ’48). Stesso discorso per il Parlamento: se si considera la sua forza consistente nella libera facoltà di un’ampia pluralità di gruppi parlamentari (cioè di partiti) di fare e disfare maggioranze e governi senza o col minimo di vincoli possibili, è chiaro che qualsiasi innovazione giuridica (e non solo politica) volta a dare stabilità agli esecutivi, verrà considerata un suo indebito ridimensionamento.
Ci sono poi coloro che hanno criticato singole previsioni del testo governativo. Devo dire, quasi tutti coloro, anche i meglio disposti, che si sono posti davanti ad esso. Fra costoro sia quanti (molti, incluso chi scrive) considerano il progetto un pasticcio sia quanti lo considerano in contraddizione con le intenzioni dichiarate dal Governo, e per questo destinato a rafforzare non troppo ma troppo poco la figura del presidente del Consiglio (di nuovo, incluso chi scrive): salvo che non si tratti, come si è presto osservato, paradossalmente, il secondo presidente del Consiglio della legislatura (così Calderisi, Ceccanti, Clementi, Frosini, Petrillo, Sterpa). Moltissimi hanno poi criticato che – per far finta di non toccare il ruolo del capo dello Stato – non si sia attribuito al presidente del Consiglio demoeletto né la nomina e revoca dei ministri né una potestà decisiva in materia di scioglimento (quest’ultima assurdamente conferita a chi gli abbia fatto le scarpe in Parlamento, cioè ai partiti). La mancanza di coerenti e adeguati poteri giuridici è stata denunciata da Ceccanti, Clementi, Curreri, ancora Frosini – pur favorevole al progetto, Morrone che ha parlato di “premieratino”, Pera, Petrillo – è un incentivo ai ribaltoni, Sterpa – un “semipremierato”).
Infine molte critiche anche per i riferimenti alla legge elettorale: sia da parte di quanti giudicano inpportuno codificarla in Costituzione sia da parte di quanti criticano che vi siano solo alcuni sporadici elementi della formula (il premio, la sua entità, la scheda unica: tra l’altro non si capisce se si immagina perfino di eleggere due Camere con una sola scheda!) sia da quanti, infine, denunciano ciò che manca: la previsione di una soglia minima di voti (come prescritto dalla Corte), l’eventuale ballottaggio (D’Alimonte per primo), magari un limite al numero dei mandati.
Cosa fare
Innanzitutto prendere in parola Meloni. E sfidarla sul piano dei contenuti senza dar spazio ai professionisti del costituzionalismo ansiogeno, accademici e politici.
Dunque, rientrando nel merito: io sono fra coloro (molti a dire il vero) i quali ritengono che con l’indicazione elettorale del presidente del Consiglio regolata da un’adeguata legge elettorale (per esempio riprendendo l’Italicum sia pure con le correzioni imposte dall’infausta giurisprudenza costituzionale) di elezione giuridicamente diretta non ci sarebbe affatto bisogno e molte cose andrebbero a posto da sé: se solo al presidente del Consiglio si attribuissero i poteri giuridici comunque indispensabili. Tuttavia penso che si debba essere realisti: che dopo aver rinunciato all’etichetta del presidenzialismo, Meloni rinunci anche all’elezione diretta tout court, resta auspicabile ma a me pare improbabile (sarebbe, peraltro, ciò che la trasformerebbe da ottima e capace politica, quale ha già mostrato di essere, una vera statista). Vedremo.
Qual’è allora il minimo sindacale per rendere votabile (in quanto sufficientemente coerente e potenzialmente funzionale), dal punto di vista dei riformisti, il testo Casellati-Meloni?
Mi limito qui, in conclusione, a un mero elenco: a) eliminare il voto di fiducia iniziale, superfluo e dannoso; b) abolire la norma c.d. antiribaltone (è un incentivo ai ribaltoni e produce contraddizioni intollerabili) e sostituirla, in nome di una minima eccezionale flessibilità con una norma che permetta (sempre) la formazione di governi d’unità nazionale, cui però il Parlamento debba conferire la fiducia con la maggioranza del 60% o dei due terzi dei componenti (non sarebbe “ribaltone” perché non potrebbe nascere senza il consenso di gran parte della maggioranza del presidente uscente, magari confermato); c) attribuzione al premier demoeletto del potere pieno di nomina e revoca dei ministri; d) attribuzione al premier demoeletto del potere di determinare l’indirizzo politico del governo (come in Germania); e) riscrittura dei riferimenti alla legge elettorale e presentazione contestuale di una congrua proposta di legge elettorale, nella quale il ballottagio non può non trovar posto; f) introduzione dell’ulteriore norma stabilizzatrice che preveda l’incompatibilità fra incarico ministeriale e parlamentare; g) prevedere il limite dei due mandati pieni.
P.S. Naturalmente ci sarebbero tante altre riforme da fare a partire da quella del bicameralismo. Ma non è più tempo di riforme organiche, pare. Soprattutto sarebbe opportuno che in proposito tacessero quanti ai tempi della riforma Renzi-Boschi ci tolsero la vita rivendicando l’inopportunità e taluno perfino l’illegittimità costituzionale di revisioni organiche, pretendendo a gran voce, nel contempo, un distinto e separato referendum per ogni singolo istituto sottoposto a modifica.