Libertà Eguale e Comunità democratica

Intervento di Giorgio Tonini all’Assemblea Nazionale di Libertà Eguale a Orvieto.

Buongiorno care amiche e cari amici.

Sono grato a Enrico Morando e a Graziano Delrio per aver voluto e saputo trasformare un piccolo problema – la casuale coincidenza temporale delle nostre due iniziative – in un’opportunità di dialogo e in definitiva di reciproco rafforzamento del messaggio comune.

A Pierluigi Castagnetti e a me è stato così affidato il compito di interloquire con entrambe le platee, per rendere concretamente sperimentabile il nostro convergere attorno a comuni preoccupazioni e intenzioni.

La principale preoccupazione che ci accomuna riguarda il futuro della democrazia. E l’intenzione, la determinazione che abbiamo in comune è fare tutto ciò che è in nostro potere, per difendere e proteggere, sostenere e promuovere la democrazia. Nella sua complessa integralità: non solo il suffragio universale, ma anche lo Stato di diritto, le libertà civili, a cominciare da quella religiosa, il pluralismo sociale, i diritti di cittadinanza effettiva.

Perché “La democrazia – scriveva Jacques Maritain nel pieno della seconda guerra mondiale – è la fragile navicella sulla quale viaggiano le speranze temporali dell’umanità”.

Una navicella fragile, diceva il grande filosofo dell’umanesimo integrale, allora esule negli Stati Uniti, impossibilitato a tornare nella Francia occupata dagli eserciti hitleriani, anche per non mettere a repentaglio la vita di sua moglie Raissa, donna “di razza ebraica”, secondo l’orrendo e atroce vocabolario imposto dalla macchina implacabile dello sterminio nazifascista.

La navicella democratica appare terribilmente fragile anche a noi, oggi, svanita l’illusione, che abbiamo coltivato a cavallo dei due secoli, che i princìpi democratici potessero diffondersi e affermarsi in tutto il mondo e in modo quasi spontaneo: per così dire, per abbandono del campo da parte dei nemici della società aperta.

E col diffondersi della democrazia, secondo la profezia kantiana, la pace avrebbe sconfitto definitivamente la guerra e lo sviluppo umano sostenibile avrebbe ridotto le disuguaglianze, le ingiustizie, la povertà.

Attenzione: non si è trattato solo di una pia illusione. Negli anni della tanto vituperata globalizzazione, succeduta alla fine della guerra fredda, le spese militari erano davvero crollate al minimo storico e le disuguaglianze sono regredite in modo spettacolare: miliardi di persone, che facevano parte del cosiddetto Terzo Mondo, sono entrate, meglio hanno fatto irruzione sulla scena economica e politica mondiale, trasformando radicalmente interi continenti: l’Asia, l’America Latina, la stessa Africa.

Ma quando si mettono in moto processi di dimensioni così gigantesche, è perfino inevitabile che esplodano questioni nuove, si manifestino rischi e minacce inediti. E difatti il fluire della storia ha preso una piega imprevista, portandoci in una terra incognita, che ci appare quanto mai lontana dalle “magnifiche sorti e progressive” che si erano affacciate sulla soglia del nuovo millennio.

Nel Novecento, l’Occidente aveva dovuto fronteggiare la sfida del comunismo sovietico mettendo in campo un compromesso tra capitalismo e democrazia che aveva assunto forme diverse, a seconda del vario comporsi, nei singoli paesi, dei diversi riformismi, di ispirazione cristiana, liberale, socialista. Ma aveva avuto un tratto comune nella riduzione delle disuguaglianze e nella inclusione sociale all’interno delle società occidentali, fattore decisivo del loro successo.

Oggi dobbiamo constatare che, nel vincere la sfida storica, esistenziale col comunismo, quel compromesso si è incrinato e il capitalismo si è mostrato assai più forte, pervasivo, per così dire globalizzabile, della democrazia. Al punto che la sfida principale con la quale dobbiamo misurarci oggi è l’affermarsi, a livello globale, di un capitalismo senza, o addirittura contro, la democrazia.

In modi assai diversi nei diversi contesti, è questo il modello perseguito dalla Cina, oggi la principale potenza antagonista dell’Occidente, dalla Russia di Putin, dallo stesso, frastagliato mondo arabo-islamico. Mondi diversissimi tra loro, ma tutti variamente integrati nel sistema capitalistico globale. E tutti variamente ostili, fino alla violenza, della repressione, del terrorismo, della guerra, contro le libertà democratiche.

Un modello talmente forte da sfidare il compromesso occidentale e perfino da riuscire a minarlo al suo interno. Facendo leva sulla principale contraddizione della globalizzazione: che proprio perché ha incluso nei benefici del mercato miliardi di esseri umani esclusi, ha finito per accrescere a dismisura il senso di precarietà e insicurezza di quel vasto ceto medio dei paesi occidentali, che aveva rappresentato il principale bacino di consenso sociale delle democrazie.

Siamo alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Tra poche ore, alle parole seguiranno i fatti. Può darsi, lo speriamo tutti, che possa determinarsi uno scarto tra le une e gli altri, che la tempesta che la fragile navicella democratica deve attraversare si riveli meno devastante di quanto facciano temere tuoni e fulmini uditi e visti fin qui.

Per intanto, dobbiamo tuttavia registrare che le parole del presidente rieletto, e rieletto trionfalmente, spingono anche, perfino gli Stati Uniti d’America, in un’orbita pericolosamente inclinata verso un modello di capitalismo post-democratico. La ingombrante e loquace presenza di Elon Musk, a fianco del presidente Trump, è del resto tutt’altro che un elemento di rassicurazione.

Le sorti della democrazia USA sono nelle mani del popolo americano. Ma dipenderà anche da noi europei se questa deriva post-democratica proseguirà o meno. Qui sta la nostra, ineludibile, responsabilità. Una responsabilità storica.

Settanta anni fa, il 19 agosto del 1954, a Sella Valsugana, moriva Alcide De Gasperi. Il più grande rammarico della sua lunga, tanto drammatica quanto feconda, vicenda politica, fu il fallimento della Comunità europea di difesa. Un fallimento che ostruì la via maestra della costruzione europea, quella della condivisione della sovranità, e costrinse il progetto federalista europeo a imboccare una strada assai più lunga e tortuosa.

Oggi la storia ci presenta un nuovo, decisivo tornante. Da un lato, l’aggressione russa all’Ucraina, per impedire l’evoluzione di quel paese in senso democratico e la sua libera integrazione nella comunità delle democrazie europee; dall’altro la pressante richiesta, da parte della nuova Amministrazione americana, di una più diretta responsabilizzazione dei paesi europei nel finanziamento della propria sicurezza, ripropongono con inedita urgenza la questione di una vera, efficace, credibile e sostenibile difesa europea. Se vuoi la pace, verrebbe da dire, difendi la democrazia, difendi l’Europa.

Ne ha parlato, con solare chiarezza, il presidente Mattarella nel suo messaggio di fine anno: “mai come adesso la pace grida la sua urgenza. La pace che la nostra Costituzione indica come obiettivo irrinunziabile, che l’Italia ha sempre perseguito, anche con l’importante momento quest’anno della presidenza del G7. La pace di cui l’Unione Europea è storica espressione. La pace che non significa sottomettersi alla prepotenza di chi aggredisce gli altri Paesi con le armi, ma la pace del rispetto dei diritti umani, la pace del diritto di ogni popolo alla libertà e alla dignità. Perché è giusto. E – se questo motivo non fosse ritenuto sufficiente – perché è l’unica garanzia di una vera pace, evitando che vengano aggrediti altri Paesi d’Europa”.

Costruire una vera difesa europea, ne siamo tutti consapevoli, comporta fare i conti con questioni di enorme portata: da quelle di carattere finanziario, a quelle di inquadramento politico-istituzionale. Nodi che è certamente difficile, ma non impossibile affrontare e sciogliere.

Del resto, se è vero che anche in Europa si va diffondendo il virus letale del capitalismo senza democrazia, è altrettanto vero che sta crescendo la consapevolezza che a questa minaccia si può rispondere solo insieme. Perché in Europa l’unica sovranità possibile è quella messa in comune.

È proprio il dossier difesa a dimostrarlo. I paesi europei spendono nel loro insieme come la Cina e più del doppio della Russia. Ma frammentate in 27 piccole o medie forze armate quelle risorse sono sostanzialmente inutili. Messe a fattor comune darebbero all’Europa forza e autorevolezza: nei confronti dei nemici delle democrazie, ma anche nei rapporti con l’imprescindibile alleato americano.

L’11 gennaio di tre anni fa ci ha lasciato, davvero troppo presto, David Sassoli: era un cattolico democratico, un riformista, un europeista. La sua presidenza del Parlamento europeo, insieme al ruolo di Paolo Gentiloni nella Commissione, ha segnato un momento di svolta nella vicenda europea.

Alla sfida della pandemia e della recessione, l’Unione ha risposto mettendo in campo un suo New Deal, per la prima volta finanziato con l’emissione di debito comune. Un successo storico straordinario.

È incredibile come questa pagina, che il centrosinistra italiano potrebbe e dovrebbe rivendicare come un merito storico, sia stata rimossa, sostituita dalla narrazione falsa e bugiarda, oltre che stupidamente autolesionista, di una presunta subalternità dei democratici italiani al neoliberismo mondiale.

E invece è proprio sulla base di questo grande lavoro comune, in Europa e per l’Europa, dalla Commissione Prodi, passando per Sassoli e Gentiloni, fino ai rapporti di Letta e Draghi, che i democratici italiani possono riannodare i fili del rapporto col paese e proporre agli italiani una credibile alternativa di governo: solidamente fondata su una visione, un pensiero, un progetto di lungo respiro.

Il governo Meloni è inevitabilmente e strutturalmente ambiguo rispetto alle decisive questioni della democrazia e dell’Europa. Come italiani e come democratici, noi abbiamo interesse che queste ambiguità si risolvano in senso europeista e democratico. Perché non ci appartiene la cultura del tanto peggio tanto meglio.

Non si tratta di fare sconti al governo. Si tratta di sfidarlo davvero. Non limitandosi a giocare di rimessa, ma costruendo una proposta al paese, visionaria nei fini e realista nei mezzi. Costruita dal basso, coinvolgendo in profondità la società italiana, che in larga maggioranza non è più disposta a dare deleghe in bianco al fenomeno demagogico di turno.

Perché la democrazia vive se c’è vera competizione tra proposte alternative. E se c’è, al tempo stesso, capacità di convergere su ciò che è essenziale: a cominciare dalla Costituzione. Che può e deve essere riformata, ma insieme. E va reso chiaro davanti al paese che noi democratici siamo pronti a seguire la lezione dei padri costituenti: che al mattino si dividevano sull’azione di governo e al pomeriggio scrivevano insieme la nostra Carta fondamentale.

Mettiamoci al lavoro insieme, care amiche e cari amici. Perché non c’è tempo da perdere.

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