Introduzione di Erminio Quartiani all’Assemblea dei soci di LibertàEguale MilanoLombardia del 11 febbraio 2022 (file PDF).
Per entrare nel merito delle principali questioni che il quadro del dibattito e del confronto politico e istituzionale nazionale presenta, occorre richiamare in premessa alcuni dei tratti salienti che ha presentato e presenterà il 2022:
-In Italia viene eletto Mattarella presidente della Repubblica con i voti della maggioranza di governo.
-Draghi mantiene la Presidenza del Consiglio (almeno per ora…)
-Entrano in Costituzione la tutela dell’ambiente e della biodiversità, non però lo sviluppo sostenibile, come richiesto dall’intergruppo parlamentare ad hoc formatosi.
– si sta per aprire una difficile stagione di referendum sulla giustizia e su temi eticamente sensibili.
-L’Onu dichiara l’anno dedicato allo sviluppo sostenibile delle montagne (a proposito di lotta alle diseguaglianze sociali e territoriali)
-Si accende la più profonda crisi energetica dai tempi della crisi petrolifera dei primi anni 70.
-Si infiamma l’inflazione al 5%.
-Crescerà il Pil europeo del 4/5%.
-Si concluderà la Conferenza sul futuro dell’Europa, occasione per rilanciare, come sostiene Ferrera, l’unità solidale del continente e la sovranità condivisa, spinti i suoi organi da un vento in poppa dato dai consensi che i cittadini europei nutrono per le scelte compiute negli ultimi due anni dalle istituzioni europee, che raccolgono il 75% di favorevoli, il 4% di contrari e il 21 % di euroscettici, come rilevato dall’ Eurobarometro.
-Si apre una gravissima crisi politico militare a Est tra Nato e Russia con il caso Ucraina (si apriranno altri casi?)
-Nella Ue sarebbe il momento in cui raccogliere le condizioni favorevoli createsi per i progressisti che hanno conquistato Spagna, Germania e Portogallo, se solo sapessero parlare una sola lingua e imbastire un progetto di Europa condiviso.
-Si voterà in Francia e Ungheria. E anche in Turchia.
– fra un anno in Italia si svolgeranno le elezioni politiche, precedute da una serie di consultazioni amministrative.
Tutto ciò, mentre in Italia continua a soffiare un vento in favore della destra, nonostante gli errori e la disunione manifestatasi durante il frangente dell’elezione del presidente della Repubblica. Molti sondaggi indicano tendenze di voto tali da non incidere nei rapporti tra campo largo del centrosinistra e campo largo del centrodestra. Sia nel caso del Rosatellum attualmente in vigore, sia del proporzionale con sbarramento al 4/5%, i rapporti di forza si attesterebbero su 220 seggi contro 170 in favore del centrodestra largo alla Camera e al Senato su 105 a 85 sempre in favore del centrodestra. Previsioni a bocce ferme, in assenza di nuove iniziative politiche che intervengano a modificare i rapporti tra le parti in campo a livello coalizionale e nel caso che intervengano novità riguardanti la collocazione di singole forze politiche dentro il loro campo di riferimento elettorale.
Dunque, mentre l’Europa, o meglio i cittadini dell’UE, abbandonano, almeno per il momento il sovranismo e il nazionalismo, in Italia continuano a prevalere le forze che interpretano le novità a beneficio del centrodestra, nonostante al centrosinistra tenda a collocarsi un 10/15% di forza populista non più dichiaratamente antieuropeista, ma non sufficientemente affidabile, come sono i 5 stelle.
La crisi del M5S crea ansia e paure di sconfitta e di perdita della posizione di governo in gran parte del PD e nei suoi alleati stretti; quindi, non si insiste più sul maggioritario e il confronto tra i due poli, ma si tende a rilanciare il proporzionale. Le piccole forze collocate nel campo largo di centro e di centrosinistra sono attratte da questa proposta, soprattutto se lo sbarramento fosse inferiore al 5%.
Ma il centrodestra, che con il proporzionale otterrebbe lo stesso numero di seggi, abbandonando il Rosatellum rischia di perdere la sua coesione già precaria, coesione almeno di facciata che gli consente di vincere la maggioranza dei seggi nelle due camere e così designare il candidato alla presidenza del consiglio.
Sull’altro versante conviene al centrosinistra perdere la propria coesione di facciata, cui l’attuale legge elettorale lo costringerebbe a dar vita a un campo largo, e rompere la maggioranza di governo ricercando, con il voto di Forza Italia, un sistema elettorale con legge proporzionale che prefigurerebbe quella che, senza fare i conti in tasca all’oste, si chiama maggioranza Ursula?
Credo che pe runa democrazia governante, senza disporre di poli che si alternano tra loro al governo (modello Westminster o Bundestag che sia) sarebbe una sonora sconfitta.
L’uninominale ha dato buona prova di sé con il mattarellum. Perché non insistere per “uninominalizzare” tutto il Rosatellum (quindi trasformando in uninominali i seggi plurinominali che costituiscono due terzi degli eletti) per l’elezione dei 400 deputati e 200 senatori?
La partita per il governo sarebbe più aperta, lineare e trasparente. E soprattutto gli elettori voterebbero ottenendo una più visibile e percepibile rappresentanza.
Ho parlato di riforma elettorale e di modifiche all’attuale legge elettorale perché ritengo falsa l’alternativa che molti oggi ci prospettano tra Rosatellum o proporzionale, soprattutto nel momento in cui il governo Draghi, portata a casa la fuoriuscita dalla pandemia, oltre alle riforme del Pnrr (e alla loro attuazione in campo economico e sociale), potrebbe dedicarsi anche a un tentativo di accordo di maggioranza sulla legge elettorale, uninominalizzando il Rosatellum.
Il Pd potrebbe almeno avanzare la proposta, se non altro per dimostrarsi fedele al principio dell’alternanza democratica. Un valore quest’ultimo di ogni democrazia liberale moderna, a proposito della quale assistiamo alla crisi della democrazia in Europa e nei suoi Stati, che ieri Panebianco, citando il lavoro del prof. Morlino, ha indicato come il terreno sul quale agire con priorità.
Ha collocato l’Italia tra le democrazie di protesta, nelle quali regna l’instabilità politica e la frammentazione partitica. Ha segnalato che in Europa ci sono tendenzialmente altri due tipi di democrazia: quella bilanciata, come in RFT, e quella irresponsabile, come in Polonia, entrambe stabili per motivi non certo dello stesso segno (in Polonia le risorse dello sviluppo sono utilizzate dalle forze populiste di governo per fare crescere la propria influenza e predominio nella società con metodi non degni di una democrazia liberale). La Francia viene collocata a metà strada tra l’Italia e la RFT.
Domanda: nel nostro Paese può una democrazia debole disporsi a rendere ancora più distante il rapporto tra istituzioni e elettori, colpiti da crescenti diseguaglianze, soprattutto nel ceto medio e tra i territori in cui risiedono, vivono e lavorano, senza che ciò possa portare, oltre il logoramento, a una rottura di sistema incontrollabile, soprattutto se venisse adottata una legge elettorale che indebolirebbe il ruolo e la stabilità del governo e consegnerebbe una semplice fotografia del conflitto sociale e delle sofferenze dei cittadini, non agevolando alcuno sbocco chiaro nel segno della governabilità come della rappresentanza?
Si è da più parti sostenuto che, con l’elezione di Mattarella bis si sia assistito al fallimento della politica. Una considerazione questa che porta acqua al mulino dell’antipolitica e del populismo.
Forse, se serviva ancora evidenziarlo dopo il bis di Napolitano, con il bis di Mattarella si è palesata con tutta la sua drammaticità la crisi dei partiti della seconda Repubblica, trascinatasi senza sbocco e troppo a lungo.
A questa crisi non hanno dato risposta i populismi alla 5Stelle né il neoleghismo alla Salvini; nella XVIII legislatura tutto ciò ha anzi complicato il ristabilimento di un ruolo “costituzionale “dei partiti.
Nessuna ha più parlato di costituzionalizzazione dei partiti. E a me, dopo l’intervento della magistratura sulla legittimità del voto espresso sullo Statuto e la nomina di Conte a capo dei 5S, pare sia proprio venuto il momento di approvare una legge che applichi l’art. 49 della Costituzione.
È inutile osservare, come fanno alcuni più realisti del re, che non si possono costituzionalizzare partiti che non esistono, perché quando va bene sono solo personali. No! Anche i partiti personali sono partiti. E sono partiti anche quelli che durano il tempo di una sola legislatura. Sono partiti anche quelli di plastica, di carta o di qualsiasi altra materia.
Non vedo nemmeno lo sforzo per riformare i regolamenti parlamentari, che, ricordo, non sono necessari solo perché nel prossimo Parlamento a 400 più 200 ci sarà una rivoluzione o terremoto nella quantità e nella qualità della rappresentanza (non so dire se in bene o in peggio). Ma perché la necessità preesisteva già alla riforma costituzionale di riduzione del numero dei parlamentari e riguardava lo statuto dei parlamentari stessi, delle loro prerogative e di quelle dei gruppi parlamentari, come riguardava e riguarda tutt’oggi, ma riguarderà ancor più domani, in un Parlamento a ranghi ridotti il rapporto tra Esecutivo e Camere, ad esempio sulle modalità e i tempi di lettura dei decreti e dei disegni di legge di iniziativa governativa, insieme alla certezza che va garantita di conclusione certa dell’iter dei provvedimenti.
In mancanza di tutto ciò il Parlamento non può che soccombere: così leggo l’esortazione di Mattarella a che il Parlamento non venga messo all’angolo dal Governo; un richiamo anzitutto al Parlamento più che a Draghi, perché si doti degli strumenti per contare nella formazione delle leggi e perché doti il Governo delle necessarie corsie preferenziali affinché possa disporre della garanzia che la maggioranza che lo sostiene sia in grado di reggere l’urto dell’eccesso di emendamentismo e di applicazione esorbitante di teorici diritti dei parlamentari a discutere al limite perenne dell’ostruzionismo, che i regolamenti attualmente in vigore consegnano come arma potentissima all’opposizione e al ricatto di singoli, o coalizzati, parlamentari appartenenti alla stessa maggioranza di governo.
Vi sono poi materie e temi strategici sui quali non è più possibile galleggiare. Penso anzitutto alla materia energetica. Essa ha certo una stretta correlazione con il tema ambientale e del clima, ma ha anche una sua certa propria autonomia data dalle vicende geopolitiche, che richiamano alla sicurezza, non solo dell’Italia, ma di tutta Europa, la quale marcia ancora divisa con scelte in capo ai singoli Stati quanto alla definizione delle strategie energetiche, fermo il quadro generale delle grandi scelte dell’UE, che sono per fortuna comunque divenute via via più stringenti, come sarà ad es. con la tassonomia per la transizione ecologica, ma che comunque fanno ricadere le responsabilità di attuazione su ciascuna singola nazione, nel definire il come attuarle (con più nucleare, con più gas, senza nucleare e senza gas, con idrogeno e rinnovabili, ecc.). Non è purtroppo ancora del tutto chiaro e condiviso, nelle istituzioni comunitarie e nei singoli stati, che occorre una rete europea del gas regolata da un unico regolatore, né che le riserve strategiche vanno messe in comune. Così dicasi per la rete elettrica e delle comunicazioni. Che le scelte sono e devono perciò essere trattate anche formalmente come interdipendenti (non puoi dire no al nucleare ad es. se però lo importi, no alle trivellazioni in casa se poi importi più gas, perché l’ambiente e il clima riguardano tutto il mondo e non si può trattenere il gas e gli effetti della sua estrazione in un singolo Stato ( ciò vale per altre fonti come il petrolio ed anche per la risorsa elettrica, la sua generazione e il suo trasporto).
Non ho colto, anche per le considerazioni che ho brevemente esposto, come innovativa , capace di pensare al futuro dello sviluppo sostenibile, il Niet al nucleare e la presa di distanza dal ruolo del gas come fonte di transizione al dopo petrolio e al dopo carbone, la dichiarazione tranchant di Enrico Letta in tema di tassonomia europea. Al riguardo Gentiloni in Commissione ha votato come indicato da Draghi: cioè sì all’inserimento di gas e nucleare nella transizione ecologica innescata dal Green Deal e dal Next Generation EU.
Peraltro, No al nucleare significa inimicarsi la Francia, con cui abbiamo appena firmato un importante accordo bilaterale, e il No al gas inimicarsi la Germania, dai cui rubinetti e tubature ci arriva e arriverà il gas dalla Russia. A parte l’impoverimento scientifico, tecnologico e della ricerca applicata nel nostro Paese che deriva da questa posizione.
Siamo comunque proprio sicuri che lo sviluppo sostenibile in tema energetico si possa reggere tutto a rinnovabili? Anche i meno addentro ai lavori sanno che si tratta di fonti instabili e intermittenti, che dipendono dalla quantità di irradiazione solare, dalla disponibilità di vento o di acqua. E nemmeno l’idrogeno, essendo un vettore, si può utilizzare senza energia elettrica che lo generi. Batterie supermegagalattiche in grado di supplire alla assenza di fonti che garantivano e in parte nella fase di transizione ancora garantiscono la stabilità e continuità della fornitura elettrica non mi pare siano all’orizzonte, e forse nemmeno potremmo affidare tutta la transizione su questa unica opportunità, mentre occorre rispondere con certezza alla disponibilità di energia elettrica per il consumo di singoli, famiglie e imprese diventato un diritto universale, il cui accesso è un bene del quale non si deve privare nessun individuo e nessun popolo. Altra cosa è procedere con precise politiche di risparmio energetico e di diversificazione delle fonti per garantire un diritto in condizioni di stabilità e di equilibrio ecosistemico. Altra cosa è proseguire incessantemente nella sostituzione di produzioni ambientalmente nocive con altre alimentate da fonti alternative, rinnovabili e non.
Invece vedo ancora il centrosinistra piegato al vecchio ambientalismo di maniera, quando non preponderantemente orientato dalla ideologia e dal preconcetto antiscientifico e ideologico, che fa fatica talvolta a riconoscersi negli obiettivi di sviluppo sostenibile di Agenda 2030 dell’Onu, perché fa persino paura che vi sia contenuta la parola sviluppo.
Su questa questione si gioca e si giocherà parte rilevante dell’egemonia culturale e politica nel prossimo futuro. Già oggi quello dell’energia è un terreno rilevantissimo sul quale si definisce la credibilità di ogni progetto di rinascita dell’Italia post pandemia. Non intravvedo proposte all’altezza di questa sfida. Anzi non vedo proprio proposte innovative e credibilmente applicabili. Mi pare in sostanza che si sottovaluti la strategicità del tema, oltre le grida di richiesta di soldi per ripianare i costi delle bollette, definendo nuove soglie di debito pubblico o sottraendo a caso ad altri impegni le risorse disponibili a bilancio invariato per la finanza pubblica.
La transizione ecologica avrà costi enormi. Questi non possono riversarsi sulle condizioni di vita e sulla capacità di stare nel mercato dei salari e dei profitti dei settori che verranno colpiti dal cambiamento.
D’accordo con Draghi. È ancora il momento di dare, non di chiedere ed esigere. Ma, al punto cui siamo giunti, è bene che il dare sia frutto di una forte selezione delle scelte. Non si può dare tutto a tutti. Occorre sempre più selezionare proprio per non fare diventare corrente quel che è stato straordinario nell’erogazione di sussidi e sostegni durante l’emergenza pandemica. Occorre poi progettare come salvaguardare i perdenti della transizione ecologica, come di quella digitale che le è gemella. Occorre una più stringente valutazione su come investire, per rigenerare vecchie competenze e generarne di nuove, per generare nuova forza lavoro che stia nel mercato a lungo, come generare nuova imprenditorialità. Serve un grande piano economico a lungo termine, che abbia presa immediata, cui il solo Pnrr, i cui tempi sono a medio termine, non potrà supplire, nonostante la mole di risorse in campo. Qui la sinistra avrebbe tutto da spendere su un terreno per crescere e affermarsi come forza credibile del cambiamento verso una nuova Italia, più europeista, più ecologista, più moderna, più eguale.
Serve la forza del progetto, non dall’alto, bensì condiviso con la scienza, la tecnica, le competenze e condiviso dentro un confronto e un dibattito anch’essi non dall’alto, bensì tra i cittadini e con i soggetti interessati da questi cambiamenti, che comunque verranno. E se verranno senza che siamo preparati, anche la democrazia liberale rischia di essere travolta dall’ondata di piena della protesta e dell’antipolitica.
Qui proprio starebbe ben collocato il ruolo dei partiti: formare e selezionare la classe dirigente sulla base di progetti e programmi, “concorrendo con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, come recita alla lettera l’art.49 della Costituzione.
Per essere concreti: oggi i cittadini, i lavoratori, le famiglie, le imprese si domandano se la crescita prevista grazie anche al Pnrr se la mangerà tutta l’inflazione. Qual è la risposta che possiamo mettere in campo a quasta domanda?
Credo che occorra anzitutto cercare di tenere insieme tutte quelle forze sociali che non spiegano la loro esistenza in base alla Rendita. E’ cioè venuto il momento di aggredire la grande accumulazione di rendita, finanziaria e non. E’ l’unico modo per trovare il consenso e le risorse necessarie per difendere e innovare il mondo del lavoro e quello dell’impresa, anzitutto manifatturiera.
Occorre incentivare tutto ciò che produce innovazione e sviluppo sostenibile e penalizzare i soggetti che speculano sugli esiti dell’innovazione e dello sviluppo.
Occorre sostenere gli impieghi bancari produttivi, la ricerca innovativa, gli investimenti in capitale umano e formazione; sostenere un nuovo welfare più inclusivo, a cominciare dai sistemi sanitario e previdenziale perché un buon welfare attutisce anche i fallimenti di mercato. Ciò significa rivedere le “quote” di pensionamento, riformare il reddito di cittadinanza, adeguare il compenso dei dipendenti della sanità pubblica impegnati in corsia e aumentarne il numero, anche attraverso il superamento dei lacci e lacciuoli che tardano a impiegare laureati e specializzandi; superare l’aberrazione del superbonus al 110%; premiare le aziende che innovano attraverso nuovi fondi industria 4.0 aperti anche alle piccole realtà e alle microimprese e che assumano manodopera femminile e giovanile; premiare l’istruzione tecnica, ecc.
Restano nel Paese divaricazioni ancor più profonde di quando iniziò la pandemia: divaricazioni sociali e territoriali. Per superarle non c’è solo un problema di quantità di risorse. Ma di capacità di spesa e di realizzazione dei progetti, spesso anche carenza di progettualità, da parte della Pubblica Amministrazione.
Non basta semplificare. Occorre cambiare radicalmente la PA, se non si vuole parlare a vanvera di grandi obiettivi che rischiano di essere mancati proprio a causa di una macchina burocratica a dir poco non all’altezza. E occorre cambiare in corsa: qui sta il difficile!
Faccio una digressione: anche la sanità lombarda dovrà cambiare in corsa. Ho infatti notato con piacere che il governo è deciso a contrastare punti salienti della controriforma del centrodestra lombardo.
Torno alla pessima prova di sé che sta dando la nostra classe burocratica ministeriale, facendo un esempio: il FSC Fondo di sviluppo e coesione, che dal 2014 al 2020 disponeva di 47 miliardi di euro. Ha visto una spesa del 4,2% delle disponibilità. Così non si può certo procedere in alcuna direzione, a principiare dal Pnrr.
Nel progetto di rilancio del Paese la macchina pubblica, dunque, insieme al suo rinnovamento, riveste un ruolo capitale. Così come rivestono un ruolo centrale le rappresentanze del lavoro dipendente, autonomo e degli imprenditori. Ho notato con grande interesse l’accordo sul documento sullo stato del settore realizzato da sindacati e rappresentanze imprenditoriali dell’automotive, perché una volta tanto il mondo del lavoro e dell’impresa si uniscono per cercare di anticipare una crisi annunciata. Ma anche perché non si è trattato del solito grido di dolore per mungere la vacca dello Stato.
Forse servirebbe che in tutti i settori i rappresentanti del sindacato e degli imprenditori ragionassero insieme sui piani per il futuro. Anche la politica ne trarrebbe giovamento per le proprie decisioni di governo.
Certo, ci si dovrà attendere anche una stagione d rivendicazioni più sostenute sul piano contrattuale e salariale, in presenza di alta inflazione. Occorre al riguardo cercare di evitare l’esasperazione del conflitto e consegnarsi a un ruolo di regolatore e moderatore del conflitto da parte dello Stato.
Perché lo Stato possa svolgere questo ruolo, serve una disponibilità di risorse ingenti e certe da investire. Nella piega del bilancio penso se ne possano trovare, facendo una radicale e seria spending review, senza la quale nessun impiego innovativo di risorse pubbliche potrà mai realizzarsi (oltre gli aiuti europei) in forma autonoma da parte italiana.
Da ciò non dipende solo il buon esito del Pnrr, ma il disegno della società italiana, che ancor più in questi giorni ha visto da parte del Parlamento rafforzare i valori della salute e dell’ambiente, come limiti invalicabili del libero imprendere, riscrivendo impegnativamente il ruolo della economia sociale di mercato, nella quale si viene a intrecciare la sostenibilità ambientale.
Da qui alle elezioni politiche del 2023 occorrerebbe evitare, avendo a disposizione l’agenda Draghi, come nel 2013 si aveva a disposizione in condizioni ben diverse l’agenda Monti, di fare come fece Bersani l’errore di regalare al populismo il frutto di quell’agenda e i suoi risultati.
Il Pd e il centrosinistra, se vogliono competere, non possono prescindere da questa agenda. E, per usare questa volta le Parole di Enrico Letta, il governo Draghi è il nostro governo. Cerchiamo di non disperderne i frutti.
Siamo entrati in un momento difficile, critico e impegnativo, nel quale la nostra associazione sente tutta la responsabilità di contribuire a risollevare le sorti del Paese, e con esso del campo del centrosinistra e dei riformisti. È anche un nostro compito statutario, per il quale siamo nati e continuiamo a vivere dentro il dibattito di tutti i riformisti.