Di Enrico Morando, Presidente Libertà Eguale
Ieri Salvati ha riproposto una domanda chiave: perché non cresciamo più? Perché non cresciamo più da molti anni, da prima di quel 1995 da cui parte il grafico Cottarelli-Galli-Leonardi?
Michele ha risposto: perché non abbiamo istituzioni politiche ed economiche fondamentali capaci di sorreggere una crescita analoga a quella degli altri paesi europei. Esse infatti hanno un carattere estrattivo, non inclusivo: tolgono alla società più di quanto non conferiscano in termini di potenzialità di crescita.
Cambiare le istituzioni politiche ed economiche fondamentali è dunque necessario, per tornare a crescere. Ma è tremendamente difficile farlo in tempi brevi.
Pur consapevoli di questa difficoltà, ci siamo messi su questa strada. Abbiamo cominciato ad attuare una coerente strategia di riforme. Nel fare questo, abbiamo dato un’intonazione ottimistica alla nostra “narrazione”: abbiamo valorizzato le tante eccellenze del sistema Italia. Eccellenze che esistono davvero, non sono inventate. Abbiamo attuato prime riforme strutturali: la riduzione della pressione fiscale sul lavoro e sull’impresa. Il Jobs Act. La Buona Scuola.
Ma il tempo era poco e il cambiamento da realizzare immediatamente troppo grande. Hanno pesato in modo decisivo i ritardi che abbiamo accumulato nel passato. E, soprattutto, ha pesato il fatto che durante la Grande Recessione abbiamo fatto registrare una caduta troppo grande, come ci ha mostrato ieri sera Leonardi con il suo grafico: solo da noi, in sostanza, la Grande Recessione ha avuto sul PIL gli effetti di una guerra.
Gli elettori tendono a non accettare di fare i conti né con la necessità, né con la difficoltà del cambiamento. Aiutati, in questo, anche da noi, quando abbiamo esercitato l’opposizione ai governi di centrodestra. Un esempio? La scelta di rimettere radicalmente in discussione il cosiddetto “scalone” di Maroni. Poi abbiamo sostenuto la riforma Fornero. Una scelta giusta, quest’ultima, ma difficile da mettere in coerenza con quella compiuta nella fase 2006 -2008: qual è il vero PD? Difficile, per un normale elettore, farsi un’idea chiara. Ecco come nasce nella testa dei cittadini quella difficoltà di collocazione del Partito Democratico di cui ci ha parlato Segatti.
Tutti questi fattori hanno concorso a rendere credibili agli occhi dei cittadini le “facili” risposte del nazionalismo populista: immigrazione? Possiamo non fare più entrare nessuno. E lo faremo. Prima gli italiani. Disoccupazione tecnologica e insicurezza da apertura al commercio globale? Possiamo impedire le delocalizzazioni, rimettere i dazi. Facciamo da soli. Le tasse sono troppe e pagano servizi inadeguati? Possiamo pagarne molto meno, con la flat tax: il Pil crescerà e tutto
andrà per il meglio. Il debito pubblico? È un problema solo perché non controlliamo la moneta (programma del Movimento 5 Stelle). Torniamo alla sovranità monetaria e rifioriremo. Basta con la dittatura dello spread e dell’euro.
Il tutto, magnificamente condito con la specialità della casa del nazionalismo populista: ogni problema del paese ha un colpevole. Non delle cause da individuare e da rimuovere, con l’azione di governo. No. Un colpevole: di volta in volta, l’Unione Europea e la Germania. Le élite (Monti, Fornero e tutti quelli che sono considerati competenti). Le banche. Il Partito Democratico. Renzi. Ognuno, a vario titolo, orditore di complotti a danno del popolo, secondo quella che Popper ha chiamato la “teoria cospirativa” della realtà.
Di qui la difficoltà del nostro racconto: noi sappiamo che i problemi del paese- le inefficienze e le incapacità- hanno cause profonde e vengono da lontano. Quindi, sappiamo che è necessario un lungo lavoro di cambiamento. Un lavoro che “scomoda” molti. Ma se accentuiamo i toni e approfondiamo questa analisi, rischiamo di alimentare sfiducia e rassegnazione. E non c’è sinistra di successo dove circola in abbondanza questa merce. Di qui la scelta di una “narrazione” un po’ più ottimistica del dovuto. Ma le (non) soluzioni degli altri appaiono più facili. I colpevoli sono ben scelti…
Tonini ce lo ha ricordato venerdì scorso: consapevoli di questi enormi rischi, abbiamo condotto il Paese lungo un sentiero strettissimo: da una parte il precipizio del ritorno alla recessione più forte e più duratura dopo la seconda guerra mondiale; dall’altra il precipizio della finanza pubblica fuori controllo e del default del debito pubblico. Nel mezzo: la politica fiscale moderatamente espansiva;
le riforme strutturali; l’avanzo primario elevato; ogni anno un passo verso il pareggio strutturale di bilancio (più piccolo di quello richiesto, ma sempre nella giusta direzione ).
Una linea che non ci ha consentito (e non poteva farlo) di presentare soluzioni definitive per i problemi aperti. A partire da quello del debito pubblico: per risolvere, l’avanzo primario e la crescita nominale del Prodotto Interno Lordo, sommati, devono essere superiori agli interessi da pagare sul debito stesso. Ma in nessuno degli anni del nostro governo era conseguibile un risultato di questo tipo: il governatore Visco fa il suo mestiere quando dice che ci vuole un avanzo primario attorno al 4% del Pil per portare rapidamente il debito sotto il 100% del Prodotto. Ma un risultato di questo tipo non era conseguibile in Italia ,in questi ultimi quattro anni. Non con metodi democratici. Dobbiamo prendere atto che questa linea è stata bocciata, nettamente e sonoramente, dagli elettori.
C’è , a sinistra, chi si fa prendere dallo sconforto: Zingaretti, nel suo articolo sul Foglio- collocata giustamente la crisi del PD italiano nella crisi dei Democratici e dei Socialdemocratici di tutto l’Occidente-, ha scritto del “fallimento della società occidentale”. Capisco lo sconforto, ma starei attento a queste generalizzazioni: se noi sinistra parliamo di fallimento dell’Occidente e il nazionalpopulismo organizza dazi e guerre commerciali, il clima politico-culturale diventa pericolosamente simile a quello degli anni 30 del 900. Dopo la guerra, nei gloriosi trenta anni del secolo socialdemocratico, abbiamo saputo cambiare paradigma e aperto una stagione di crescita tumultuosa: maggiore benessere e riduzione della disuguaglianza.
La mia opinione è che la fase di gravissima difficoltà che stiamo attraversando non possa essere affrontata dalla sinistra riformista di governo rinunciando ad un approccio razionale e ad una visione positiva circa la possibilità di risolvere i problemi drammatici del mondo contemporaneo. Non possiamo rinunciare a sostenere i vantaggi della globalizzazione- milioni e milioni di uomini e donne che non muoiono più di fame, che entrano da protagonisti nel processo di sviluppo e nel benessere-, perché i perdenti della globalizzazione sono una realtà. Forse che i nostri nonni e bisnonni sposarono le teorie del Luddismo-determinarono la paralisi delle forze produttive-,perché lo sviluppo del capitalismo determinava anche sofferenze sociali, crisi drammatiche, disoccupazione (Marx ricordato ieri sera da Salvati ). Si proposero forse di arrestare quella che Schumpeter chiama la “distruzione creatrice”? No. Si diedero una visione del mondo-una ideologia-, una organizzazione, svilupparono iniziative sociali ed economiche per governare il capitalismo. Lo fecero, contro Marx, assumendo pienamente la dimensione dello stato nazionale come contesto della propria iniziativa.
Oggi, la globalizzazione trainata dalla nuova rivoluzione tecnologica mette in crisi, dalle fondamenta, il nostro edificio:lo Stato nazionale non è più del tutto “sovrano”. Non padroneggia compiutamente i problemi fondamentali che si propongono di fronte a noi. Di qui la crisi del progetto di governo della sinistra. La nostra-nel mondo-è una crisi di funzione.
La risposta non può tuttavia essere, in nome della paura, della insicurezza, della radicale incertezza che si è impadronita di vaste fasce di cittadini dell’occidente, una risposta di tipo reazionario: torniamo dove eravamo. C’è una parte della sinistra che si fa orientare da questo indirizzo ( per fare un esempio, Mélanchon in Francia ). Nè possiamo rifugiarci nella mera testimonianza: ci sono i perdenti della globalizzazione. Parliamo con loro. Riassumiamone la rappresentanza. Mostriamo di saper soffrire con loro… Se ci riesce di far regredire la globalizzazione ( causa delle loro sofferenze), tanto meglio. Se non ci riusciamo-come è probabile-avremo almeno fatto il nostro dovere e, se perderemo, perderemo bene. Corbyn, ad esempio, sembra tentato da questa prospettiva. Ed è un perdente di successo ( lo dico col massimo rispetto: noi, ora, siamo perdenti, ma non di successo).
La risposta della sinistra di governo non può che essere una: vogliamo governare la globalizzazione. Con i nostri ideali e con la nostra capacità di rappresentare interessi e forze economiche e sociali. Dinamiche e meno dinamiche.
Uno dei principali pilastri del progetto di governo globale di questa nuova sinistra di governo è la drastica mitigazione- in visione utopica: la eliminazione – delle sofferenze indotte dalla crescita del capitalismo globalizzato.
Questo modo di ragionare è ispirato da forti idealità- le nostre tradizionali-, ma è figlio di realismo politico: nessuno dei grandi problemi che ci angustia – 1) immigrazione; 2) disoccupazione tecnologica; 3) riscaldamento e inquinamento globale; 4) sicurezza e minaccia del terrorismo
fondamentalista islamico – è seriamente affrontabile a dimensione nazionale. I nazionalpopulisti dicono che lo sia: ma è, la loro, una utopia reazionaria.
- qui che il discorso su di noi, sulla sinistra in Italia e nel mondo, sui successi e le sofferenze della globalizzazione, incontra il tema dell’Europa.
Per rendercene conto meglio, riprendiamo il discorso dove l’abbiamo lasciato, con la risposta di Salvati: non cresciamo perché abbiamo istituzioni economiche e politiche fondamentali di tipo estrattivo, che tolgono risorse alla società invece di favorirne lo sviluppo. In questi cinque ultimi anni, abbiamo provato (in parte, siamo anche riusciti) a cambiare questo stato delle cose. Abbiamo camminato sul “sentiero stretto”. Ma gli elettori ci hanno bocciato. Che fare? Se stiamo dentro i confini nazionali, c’è poco da fare. Lo sa bene il ministro Tria: o attua il Contratto, e precipita l’Italia fuori dall’euro, o non lo attua e si muove in continuità con Padoan , e viene precipitato fuori dal governo.
Come ci ha detto Tonini ieri, abbiamo una sola possibilità: possiamo fare in modo che si accenda il motore europeo. Mentre in Italia acceleriamo le riforme nazionali ( dall’opposizione? Sì, facendola in modo assai diverso rispetto a quella sviluppata contro i governi di centro-destra) . Si può fare, se la smettiamo di guardarci l’ombelico e mettiamo a fuoco le novità che emergono. Prendiamo quella, davvero grande, uscita dal vertice Merkel – Macron a Meseberg. Userò le parole di tre economisti, tra di loro assai diversi, Giavazzi , Lucrezia Reichlin, Zingales: “È la prima volta che si propone un bilancio dell’Eurozona per gli investimenti.… L’equilibrio di questo bilancio deve essere conseguito non solo allocando la spesa, ma anche allocando in modo diverso le entrate: economie in espansione debbono contribuire di più delle economie in recessione”. Gli altri ci pagano il debito? Naturalmente, no. Ma se noi realizziamo il pareggio strutturale di bilancio, ormai vicino, può accendersi il motore europeo della politica fiscale. Una soluzione – cambiato il moltissimo che c’è da cambiare- che ci avvicinerebbe al modello statunitense: stati in pareggio, politica anticiclica affidata alla dimensione federale. Investimenti europei sarebbero in grado di sostenere per un verso la domanda aggregata ,di cui sono parte essenziale. Per l’altro, di innalzare il potenziale produttivo dell’Euroarea nel suo complesso. Qiundi, anche del nostro Paese. Dov’è l’enorme novità di Meseberg? Per vederla, dobbiamo tornare agli albori del dibattito sull’Unione monetaria. Nel 1969 , l’economista Peter Kenen lo scrive nel modo più chiaro: “la politica monetaria e la politica fiscale devono andare mano nella mano e dovrebbero avere lo stesso dominio territoriale”. Nel 1977, il Rapporto del commissario Mac Dougal insiste: “una politica fiscale per la stabilizzazione è un elemento chiave in qualsiasi programma di integrazione monetaria”. Nel 1986, il Rapporto Delors raccomanda:”in tutte le federazioni, le diverse combinazioni di politiche di bilancio hanno un potente effetto di assorbimento degli shock… Questo
è sia il prodotto, sia la fonte del senso di solidarietà nazionale che è condivisa da tutte le unioni economiche e monetarie”. Purtroppo, il trattato di Maastricht non fa letteralmente cenno all’esigenza di rendere coerenti politica monetaria e politica fiscale.
- la pretesa di mantenere separate la politica monetaria (affidata ad un organismo federale), e la politica fiscale ( affidata agli Stati membri) il vero fattore di debolezza della Unione Europea emerso durante la Grande Recessione : è questa la fonte delle inefficienze economiche e, di conseguenza, delle sofferenze sociali .
A Meseberg, Macron sostiene l’urgenza di avere un bilancio dell’area euro per un preciso disegno di affermazione dell’interesse nazionale francese. Fin qui, è tutto prevedibile. La sorpresa è data dal consenso di Merkel. Perché dice finalmente di sì? Per ragioni di politica interna tedesca: pensa evidentemente che le sia più facile respingere l’offensiva del suo ministro dell’interno se riesce a non mettere le politiche sul l’immigrazione al centro del Consiglio di fine Giugno.
Per il Governo italiano, un’occasione d’oro: per fare un decisivo passo verso quel bilancio dell’Euroarea cui è vitalmente legato il nostro interesse nazionale, si poteva finalmente contare sull’esplicito impegno dei nostri due principali partner. Il Governo Salvini-Di Maio fa esattamente il contrario:” Al centro l’immigrazione”. Contro la signora Merkel , contro Macron, contro l’interesse beninteso dell’Italia; a favore degli avversari della Cancelliera e di Orban. Risultato: un disastro sul tema immigrazione ( se va bene, finirà che ci dovremo riprendere un po’ di immigrati che stanno in Germania. Se va male, salta Il mercato unico ). E , sopratutto, il bilancio dell’Euroarea completamente negletto.
Una vicenda che dimostra di cosa abbiamo bisogno: una sinistra che, dall’opposizione, non faccia delle europeismo astratto – vogliamo gli Stati Uniti d’ Europa- una bandiera da agitare
propagandisticamente, mentre i nazionalpopulisti agiscono indisturbati sulle paure e le incertezze di milioni di italiani preoccupati di perdere al tempo stesso identità , lavoro e benessere. Ma una sinistra che sia capace di interpretare correttamente il nostro vero interesse nazionale, collocandolo dentro un realistico progetto di costruzione del nuovo sovrano europeo, credibile protagonista del governo globale.