Idee, governo, fare: sono le tre parole chiave del nostro convegno

Intervento di Enrico Morando in conclusione dell’Assemblea Nazionale di Libertà Eguale a Orvieto.

Idee, governo, fare: sono le tre parole chiave del nostro convegno.

1-Le idee, prima di tutto: perché “presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, a essere pericolose, nel bene o nel male“. Così Keynes , nelle ultime righe della sua Teoria generale.

È sul terreno delle idee che la destra ci ha battuti. Ed è su questo terreno che dobbiamo lavorare, se vogliamo, come dobbiamo, organizzare una riscossa. Per questo abbiamo affidato la relazione a Claudia Mancina, che a maneggiare  idee ha dedicato una vita. A giudicare dal consenso suscitato e dall’accoglienza ricevuta credo che noi si sia fatta la scelta giusta.

È stato lo storico Andrea Graziosi a spiegarcelo in modo convincente: “la vecchia destra tradizionalista, perbenista, spesso autoritaria e proprietaria è stata travolta dall’ondata progressista degli anni 60 e 70…,cominciò allora a costruire pezzi di un nuovo discorso spesso semplicistico, nemico di libertà e dignità individuali, che però parlava alle nuove faglie della società che si andava formando, rivolgendosi ai suoi “marginalizzati“, e lo faceva usando spezzoni del linguaggio dei progressisti che l’avevano sconfitta, incluso quello dei diritti“. In quel contesto, alle aspettative crescenti del “miracolo“ si sostituivano quelle decrescenti, in contraddizione col riformismo vincente dei 30 gloriosi. Graziosi spiega così il rifugiarsi della sinistra nel non controverso (slogan con cui tutti sono d’accordo), nel moralismo e, soprattutto, nel silenzio su tutto ciò che è urticante, difficile. Questo processo ha preso, in Italia, uno specifico profilo, per la presenza dominante, nella sinistra, di un grande partito comunista che Berlinguer -messo di fronte alla crisi di cui abbiamo detto- fece virare verso un approccio di tipo moralistico. Un approccio che, altrove, ha preso i caratteri di quella che Yasha Mounk chiama la “trappola dell’identità“: “assicurarci che il modo in cui ci trattiamo l’un l’altro -e lo Stato tratta tutti noi- dipenda dal gruppo in cui siamo nati o al quale scegliamo di appartenere, rischia di far passare l’idea che per compiere i progressi politici sia necessario gettare al macero valori universali e regole neutrali. Il pericolo è quello di privarci di un orizzonte comune o di una dimensione collettiva sul piano sociale e politico…, rimanendo piuttosto divisi in nicchie social-mediali fintamente comunicanti, ognuna con una sua visione del mondo cementificata ed immutabile“.

Si tratta dello stesso errore che induce Walzer a descrivere così quello che non va nella sinistra di oggi: “Dipende dal trionfo del progetto ideologico e dei suoi slogan sugli interessi delle persone in carne ed ossa. I vecchi gauscisti ricorderanno  la distinzione di Lenin tra “coscienza rivoluzionaria“ e “coscienza sindacale“. Quella che divide quelli che cercano di creare una società comunista a tutti i costi e i lavoratori che vogliono salari più alti e condizioni di lavoro decenti“.

È così che si è progressivamente determinato un distacco della sinistra dalla realtà economica, sociale e culturale della maggioranza dei cittadini, per inseguire identità che non comunicano con altre; con grandi partiti popolari che tentano inutilmente di sommare queste microidentità, fino a giungere ad una sorta di rovesciamento del significato stesso delle parole fondamentali della sinistra. Nella neolingua del follemente corretto (Ricolfi) “inclusività significa assicurarsi che chiunque non è d’accordo non sia incluso. La diversità implica un’assoluta uniformità di pensiero. E uguaglianza significa spesso privilegiare spudoratamente un gruppo rispetto all’altro”.

Anche la discussione interna ai grandi partiti della sinistra ha perso i riferimenti alla realtà che l’hanno sempre caratterizzata, impoverendosi nella stanca ripetizione di slogan… Anche per definire quelli che hanno convocato questa nostra riunione, non si è trovato di meglio che definirci “liberisti“. Poco importa che la realtà faccia emergere che Keynes è tornato, ormai da molti anni: che cosa è stata la politica dei tassi bassi (e addirittura negativi) delle banche centrali? Che cosa è l’alleggerimento quantitativo della Federal Reserve e della BCE? Che cosa è stato il grande programma di spesa pubblica di Biden? Che cosa è il Next Generation EU? Il fatto è che oggi, di fronte al nuovo mondo dell’incertezza e dell’insicurezza, nella fase post pandemica -cioè, di fronte alla realtà- siamo chiamati ad affrontare sia una crisi dell’offerta, sia una crisi della domanda. Una politica economica che non agisca da entrambi i lati è destinata, a priori, al fallimento.

Per recuperare un rapporto con la realtà in radicale mutamento abbiamo dunque bisogno di riferirci a grandi principi di tipo universale -lo hanno fatto ieri mattina in modo molto efficace Claudia Mancina e Giorgio Tonini sul tema cruciale della difesa e della piena affermazione della democrazia-, che consentano di collocare ogni proposta, ogni iniziativa dentro un orizzonte comune e -come dice Mounk- dentro una dimensione collettiva sul piano sociale e politico.

2- È così che la sinistra si riconcilia con la seconda parola chiave del nostro convegno: governo.

Governo globale, in primo luogo. Per impedire che la crisi del vecchio ordine mondiale degeneri nel disordine, nella guerra tra grandi potenze, nella distruzione. La relazione di Mancina, le cose che ci hanno detto Gentiloni, Ranieri, Filippi e molti altri, hanno reso con efficacia l’enormità della posta in gioco: le autocrazie affrontano la crisi del vecchio ordine internazionale con l’ambizione -sostenuta dalla loro potenza economica, militare e culturale- di ridisegnarne uno nuovo a loro immagine e somiglianza. La reazione delle democrazie deve essere all’altezza della sfida, innanzitutto sul piano culturale. Quando gli esperti, come Paolo Segatti in un recente convegno di Libertàeguale e altre associazioni riformiste della Lombardia, ci dicono che la nostra opinione pubblica coltiva prevalentemente l’atteggiamento riassumibile nella frase: “lasciatemi in pace“, viene in campo -per un’associazione come la nostra-, l’esigenza di un intenso lavoro, ancora una volta, sul sistema delle idee. Perché quando Trump minaccia il Canada e la Danimarca, svelando che il suo MAGA comprende nel “di nuovo grande“ addirittura una rivendicazione territoriale, la risposta rassicurante di molti: “non lo farà davvero“, è più una parte del problema che una soluzione.

Se gli Stati Uniti d’America, dopo lo sforzo di Biden per organizzare davvero l’alleanza delle democrazie, virano verso l’idea di un nuovo ordine globale organizzato su “aree di influenza“, si indebolisce drammaticamente il castello di idee attorno al quale abbiamo costruito l’attiva solidarietà con la resistenza ucraina… E si aprono le porte verso quella pace ingiusta che rende tutti noi meno liberi (Gentiloni). Dunque, l’iniziativa dei progressisti -in Italia, in Europa, nel mondo- deve svilupparsi tenendo realisticamente conto della novità di approccio dell’alleato americano, ma non rinunciando alla battaglia quotidiana per tenere aperta la prospettiva del multilateralismo e dell’alleanza delle democrazie.

Muoversi attivamente nella direzione del nuovo governo globale significa-come avete detto tutti- far leva su di un rinnovato europeismo. A questo proposito, è risultata evidente la convergenza degli interventi di Tonini, Gentiloni, Quartapelle, Ranieri, Fassino, Martelli su di una piattaforma programmatica al tempo stesso ambiziosa e realistica. Mi posso dunque consentire di non riassumerla, in questa sede. Voglio solo aggiungere che ha ragione Panebianco quando, dalle colonne del Corriere della Sera, ci invita-se vogliamo produrre una concreta ipotesi di governo-, a non evitare le domande più difficili: chi è il nemico, l’avversario strategico? E chi decide, in ultima istanza, sull’uso degli strumenti di difesa “europei“ che vogliamo creare? Da dove viene la minaccia è chiaro: la sfida viene dalla pretesa delle autocrazie di disegnare il nuovo ordine internazionale. E nella fase di avvio del rilancio dell’Europa come potenza globale -a partire dalle garanzie assolute che dobbiamo assicurare all’Ucraina nella pace giusta che si vuole raggiungere-, dobbiamo considerare realisticamente l’ipotesi che un gruppo di Paesi europei volenterosi dia luogo ad una cooperazione rafforzata nel campo della difesa, magari rispolverando una vecchia proposta avanzata dai giovani della socialdemocrazia tedesca molti anni or sono, quando ipotizzarono la costruzione di un embrione di esercito europeo da affiancare-nell’ambito della Nato-, agli eserciti nazionali esistenti.

Non rifugiarci nel non controverso o nel silenzio. Non evitare le domande difficili: questo è il metodo di lavoro per costruire -in tutti i campi- concrete proposte di governo.“Popolari“ proprio perché, rifuggendo dall’ovvio, agiscono nella realtà difficile e urticante della società contemporanea. Farò ora qualche esempio, partendo da un assunto generale che ci è stato proposto da  Giorgio Gori: per cambiare la realtà, dobbiamo guardarla in faccia.

Comincio dal tema del governo dell’immigrazione, su cui si è soffermata Bonafè, con accenti che ho condiviso. Scoprire il bluff che ha portato Meloni a trasformare il suo blocco navale nella operazione Albania è giusto, ma è anche molto facile. Il difficile è indicare puntualmente quali siano le soluzioni per programmare l’ingresso di migliaia di immigrati legali, quelli che servono alle nostre famiglie ( ne ha parlato Aldo Amoretti con una precisione di analisi e una fantasia di proposta che mi hanno molto colpito), e alle nostre imprese… Per andare là dove l’immigrazione ha origine, sottrarre chi vuole emigrare al mercato gestito dagli schiavisti, portarli qui da noi, realizzare positivi programmi di formazione e integrazione e, sulla base del buon esito di questo processo, sviluppare una rigorosa azione di contrasto della clandestinità, eliminando finalmente una legge falsificatrice e criminogena come la Bossi Fini.

In materia di sanità pubblica, buon senso e demografia  suggeriscono e impongono un significativo rafforzamento, specialmente riferito alla componente territoriale del sistema. Per questo, servono più soldi. Fin qui, siamo nel regno dell’ovvio (almeno sul piano delle intenzioni). Infatti, non si trova chi sostenga il contrario. Pochissimi, invece, si occupano di rispondere con precisione alle domande sulla radicale ristrutturazione/innovazione della organizzazione del sistema sanitario che sono indispensabili per migliorare il servizio offerto ai cittadini, a partire dalla tragedia delle infinite code per assicurarsi le prestazioni, anche le più semplici. Eppure, cogliendo la straordinaria opportunità offerta dal  PNRR, stiamo sviluppando investimenti per miliardi sulle case della salute e la telemedicina. È il presupposto di una possibile svolta. Ma chi mettiamo a lavorare dentro le case della salute e al sistema di telemedicina? Il buon senso suggerisce che un contributo determinante potrebbe e dovrebbe venire dai medici di medicina generale (quelli che un tempo chiamavamo medici di famiglia). Il rinnovo della convenzione tra questi professionisti  e lo Stato avrebbe dovuto e potuto essere la sede per un radicale ridisegno di reciproche obbligazioni,  di funzioni e prestazioni, così da assicurare -soprattutto ai malati cronici- un servizio più puntuale, disinflazionando al contempo il ricorso al Pronto soccorso degli ospedali. Se capisco bene, nulla di tutto ciò è stato messo in programma, né dai Governi precedenti, né da questo Governo. Se state pensando alle ragioni per cui è accaduto…sì, avete indovinato: uscire dall’ovvio implicava entrare nel politicamente controverso e nell’elettoralmente costoso.

Venendo al tema del lavoro, mi basterà richiamare alla vostra memoria gli interventi di Pietro Ichino, Maurizio Del Conte e Marco Bentivogli… La discussione è andata ben oltre il richiamo alla nostra contrarietà al referendum volto all’abrogazione del Jobs Act. Gli interventi hanno indicato, ancora una volta, soluzioni preziose, su cui bisognerà lavorare, costruendo consenso e iniziativa diffusa. Nel corso di questo lavoro, dovremo evitare di aggirare le questioni controverse. Recentemente, si è aperto un aspro confronto tra le organizzazioni sindacali sulle soluzioni di democrazia economica contenute nel disegno di legge di iniziativa popolare promosso dalla Cisl. La Cgil ha contrapposto l’esigenza di lavorare ad una legge in materia di rappresentanza. Per noi riformisti, la democrazia economica e lo sviluppo di forme avanzate di partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali è un terreno fondamentale di iniziativa. Il ritardo accumulato dal Paese su questo terreno -rispetto ad altri partner dell’Unione europea-,   è uno degli indicatori più espliciti dei limiti del riformismo italiano. La proposta della Cisl muove dunque nella direzione giusta e va certamente apprezzata. Va altresì notato che la realizzazione di forme più avanzate di democrazia economica debbono necessariamente accompagnarsi a significativi progressi nella contrattazione. Per lo sviluppo della quale regole certe – fissate dalla legge- sulla rappresentanza sono semplicemente indispensabili.

Il conflitto in corso è dannoso e determinato dalla priorità riconosciuta alle esigenze organizzative di ciascun sindacato. Legittime, ma non fino al punto da risultare prevaricanti… Anche a questo proposito, dunque, una decisa iniziativa dei riformisti può risultare vincente.

Marco Leonardi e Leonzio Rizzo hanno presentato questa mattina un’analisi degli effetti devastanti del fiscal drag, negli anni di elevata inflazione che abbiamo appena superato. Ciò che rileva, ai fini della discussione che abbiamo qui svolto, è la proposta avanzata per una realistica soluzione del problema. Chiedendo loro scusa per la sommarietà del mio riassunto, essa consiste in una specie di uovo di Colombo: stabilire per legge che, se l’inflazione cresce, il volume dell’imposta sul reddito dei lavoratori dipendenti e dei pensionati deve crescere in proporzione diretta, e non più di quanto previsto da questa proporzione, come accade quando il fiscal drag entra in azione. Anche su questo, non manca una domanda difficile: l’innovazione legislativa proposta, ha bisogno di una copertura finanziaria o no? Si può sostenere, per rispondere negativamente, che si tratti di “rinuncia a maggior gettito“? Prevedo un bel match con la Ragioneria generale dello Stato. Ma il problema dobbiamo porcelo, perché vedo disegni di legge presentati dai leader dell’opposizione con coperture fondate sul maggiore gettito derivante dalla crescita economica prevedibile… (se possibile, una soluzione  peggiore delle proverbiali coperture sulla “lotta all’evasione fiscale…“).

Voglio ora aggiungere a quelli affrontati, un tema di cui ci avrebbe parlato Federico Testa, se un piccolo incidente non gli avesse impedito di essere tra noi. Quello che dirò -con l’eccezione degli errori- è frutto della sua scienza, non della mia. Anche in questo caso, ci si propone un bagno nella realtà: le bollette elettriche… Quelle che pagano tutte le famiglie, tutte le imprese italiane. È accaduto qualcosa di inimmaginabile: nottetempo, nell’imminenza del Natale, è stata inserita nella Legge di bilancio la proroga delle concessioni sulla rete di distribuzione dell’energia elettrica. La legge Bersani, perfettamente in vigore, le prorogava fino al 2030. E stabiliva che, a partire dal 2025, lo Stato avrebbe dovuto organizzare gare per le concessioni, da concludersi entro il 2030. La legge di bilancio 2025-2027 proroga le concessioni agli attuali concessionari (l’ex monopolista ha l’85% del settore) per 20 anni. E stabilisce che i “prorogati“ paghino un contributo. Almeno il contributo, direte voi, è una cosa buona. Peccato che la legge stessa preveda  che questo contributo debba essere integralmente recuperato in bolletta.  Cioè, pagato da tutte le famiglie italiane. Maggiorato degli oneri finanziari per gli investimenti realizzati, che per gli anni 25-27 sono addirittura fissati del 5,6% (se lo Stato avesse messo un BTP, avrebbe pagato al massimo il 3,5%). Alla fine, si tratterà di qualche milione di euro? Nossignori. Sono in ballo miliardi. È gravissimo che nel Paese non si sia sviluppato un confronto aperto su di una scelta di questa portata. Silenzio generale. Assordante  quello dell’opposizione, perché è su terreni come questo che deve avvenire la riconciliazione tra centrosinistra e realtà economica e sociale.

Avevo pensato di terminare qui gli esempi di scelte chiare su questioni controverse perché dotate di radici profonde nella realtà sociale, economica e culturale. Non posso però farlo senza un cenno alla nostra coerenza nel campo della riforma dell’ordinamento giudiziario. Tanti anni fa, qui ad Orvieto, dedicammo larga parte della nostra Assemblea alla riforma del sistema giustizia; e lo facemmo col determinante contributo di Emanuele Macaluso e Giuliano Pisapia. Fu un momento importante per l’elaborazione delle posizioni che portarono alla riforma dell’articolo 111 della Costituzione sul giusto processo. Nel definire la nostra posizione sulla separazione delle carriere, eravamo anche allora seduti sulle robuste spalle di un liberalsocialista come Vassalli…È per questo che dico, con Ceccanti e molti altri: se il sorteggio per l’elezione dei membri laici del CSM è un grave errore, combattiamolo apertamente come tale, con tutto il vigore necessario. Ma si tratta di un corollario, per quanto importante, che non può cancellare la portata dell’innovazione di sistema. Abbiamo votato insieme al centrodestra l’articolo 111 della Costituzione. Votiamo insieme la conseguente separazione delle carriere.

Infine, la situazione del nostro bilancio pubblico. In un Paese che spende ogni anno più di interessi sul debito che per l’istruzione dei suoi ragazzi, c’è l’esigenza di costruire, nelle fasi di crescita, avanzi primari. Lo ricordo perché negli ultimi anni abbiamo tardato a correggere, ritirando incentivi che non erano più necessari perché introdotti in fase di recessione. L’esempio più clamoroso è quello del ritardo con cui, per tutto il 2023, abbiamo mantenuto gli incentivi enormi del superbonus edilizio. Tonini ha ripetuto ieri, nel dialogo con Gentiloni, che il motore della politica fiscale anticiclica si deve accendere a dimensione europea, mentre la regola dell’equilibrio strutturale di medio periodo deve essere rispettata dai Bilanci pubblici nazionali. Proprio perché concordo, continuo a pensare che ,in Italia, ci sia bisogno di un piano specifico di riduzione del debito, che faccia leva su di una gestione più attiva del patrimonio pubblico, sulla quale attrarre anche un adeguato volume di risparmio privato.

3- Vengo ora all’ultima delle tre parole chiave: fare. Cosa ci impegniamo a fare, nell’anno che si è appena aperto? Prima di tutto, a continuare il lavoro che abbiamo sviluppato, con altre associazioni come Magna Carta, Io cambio e Riformismo e libertà, sulla riforma costituzionale. Ora va per la maggiore la tesi che Meloni rinvierà tutto alla prossima legislatura. Sento in giro, a sinistra, sospiri di sollievo. Non li condivido, per le ragioni illustrate ieri sera da Ceccanti, Clementi, Fusaro, durante la presentazione del libro di Giovanni Matteoli sulla Presidenza di Giorgio Napolitano. Vorrei dirlo con pacata determinazione: noi non ci rassegniamo. Le riforme erano, sono e saranno necessarie e urgenti. Per questo, tra qualche settimana, riprenderemo l’iniziativa.

Nel 2025 vogliamo soprattutto dedicarci al lavoro per il quale stamane Michele Salvati ci ha fornito -come al solito brillantemente- il necessario contesto di cultura politica. Prima di venire al merito, voglio ringraziare Michele, per l’enorme contributo che ha fornito- e continuerà a fornire- all’innovazione della cultura politica della sinistra liberalsocialista e liberaldemocratica, italiana e non solo.

Proprio in questi giorni, si è riaperta -nel centrosinistra- la discussione sul “centro“. Una discussione un po’ bislacca, al punto che non è mancato chi ha addirittura messo Libertàeguale tra i soggetti politico-culturali che coltivano progetti neocentristi. Noi…,i sostenitori -anche con l’arma del referendum- del maggioritario; noi, i sostenitori dell’esigenza di partiti a vocazione maggioritaria, anche quando, nel centrosinistra, non c’erano e non si vedeva come potessero nascere; noi, sostenitori della riforma costituzionale del “governo del Primo Ministro”, secondo la tesi numero uno dell’Ulivo… Non c’è bisogno -dopo il confronto sul libro di Matteoli cui hanno dato vita  Stefano Ceccanti, Carlo Fusaro, Francesco Clementi e Giulio Napolitano- che io torni ad insistere sulle ragioni per cui il “centro“ di cui noi parliamo da sempre non è quello dei “partiti di centro”, ma quello della società, che i protagonisti della competizione bipolare per il governo -centrosinistra versus centrodestra- devono saper rappresentare.  Di qui nasce la nostra insistenza sull’esigenza di agire -come ci hanno insegnato Maurice Duverger e Augusto Barbera, che voglio ringraziare da questa tribuna che lui ha frequentato prima di iniziare il suo eccellente servizio come giudice e Presidente della Corte costituzionale- sia sul fronte delle riforme istituzionali ed elettorali (il governo del Primo Ministro legittimato dal voto degli elettori, previsto dalla tesi uno dell’Ulivo), sia sul fronte dei soggetti politici interpreti della competizione per il governo (il partito a vocazione maggioritaria).  Abbiamo difeso questa posizione anche quando il bipolarismo sembrava travolto dall’emergere di soggetti politici dotati di largo consenso elettorale ed estranei sia al centrodestra, sia al centrosinistra. Non abbiamo alcuna intenzione di abbandonarla ora, quando gli orientamenti elettorali -almeno in Italia- tornano nel solco del bipolarismo. Dobbiamo però affrontare a viso aperto il problema dell’attuale debolezza del centrosinistra come interprete della competizione bipolare. L’assetto politico del centrodestra, da quando siamo entrati nella fase dell’alternanza di governo, è sempre stato caratterizzato dalla presenza di un partito a vocazione maggioritaria: prima Forza Italia di Berlusconi, poi, per un brevissimo tratto, la Lega di Salvini. Ora, Fratelli d’Italia di Meloni. Per dirlo con le parole usate da Claudio Petruccioli, il centrodestra ha sempre avuto il suo “pilastro“ fondamentale. Nel centrosinistra, dopo una fase di incertezza, è possibile affermare, sempre con Petruccioli, che, per la funzione di pilastro della coalizione, non si può prescindere dal Partito Democratico. Possono crearsi altri partiti riformisti di orientamento liberaldemocratico, stabilmente collocati del centrosinistra? Sì, è possibile. Quale che sia l’opinione sull’auspicabilità di questo evento. Bersani, per esempio, sostiene che “ci vuole un soggetto liberale e democratico…“. Io penso che se ne possa fare a meno, se il PD fa bene la sua parte. Ma, su questo, è bene sospendere il giudizio. È però decisiva la conclusione a cui arriva Petruccioli. Alla domanda: “è possibile che questo eventuale nuovo partito sia il “pilastro“ riformista della coalizione?” La risposta è no. Dunque, per tutti, per chi ci sta dentro, come me, e per chi sta fuori, è decisivo che il PD-che oggi non è in grado di svolgere appieno questa funzione-si metta nelle condizioni di assumerla su di sé e di svolgerla attivamente. Ed è chiaro che questa svolta non ci sarà, se i riformisti non svilupperanno un’iniziativa coordinata sull’agenda politico-programmatica del centrosinistra. Tutti i riformisti. Quale che sia la loro collocazione nei partiti che ci sono o ci saranno.

Su questo punto, qui ad Orvieto, in questi due giorni di confronto, si è manifestato un fatto nuovo: molti, da Fassino a Bentivogli, da Paita a Tommasi, hanno condiviso un’esigenza e manifestato una disponibilità. L’esigenza è quella di un lavoro comune sulla piattaforma

politico-programmatica di governo del centrosinistra. La disponibilità è per l’impegno a partecipare a questo lavoro senza pregiudizi e senza pregiudiziali. Libertà Eguale è consapevole della responsabilità che le deriva dal confronto di questi giorni, e dedicherà i prossimi mesi a questo lavoro di coordinamento. Il tempo che abbiamo a disposizione è poco (ne abbiamo sprecato troppo), ma è sufficiente. Le soluzioni tecnico-organizzative le studieremo insieme. Gli strumenti da utilizzare li definiremo insieme.  Discuteremo di tutto, ma saremo determinati a fare, ad agire.

 

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