COP26: il bilancio degli accordi di Glasgow

Di Massimo Lombardini.
Pubblicato da Ispi
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La Cop1, la prima Conferenza delle Parti che riunisce i Paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, si tenne a Berlino nel 1995 guidata da Angela Merkel, al tempo ministra dell’Ambiente della Germania. Da allora, le conferenze si tengono annualmente per discutere progressi e impegni nella lotta al cambiamento climatico. Una Conferenza chiave fu la Cop21, ospitata dalla Francia nel 2015, conclusasi con l’adozione degli “Accordi sul clima di Parigi”. Negli accordi le parti hanno sottoscritto degli impegni (pledges) con riduzioni quantificabili delle emissioni di gas a effetto serra, le cosiddette “National Determined Contributions” (NDCs), con un meccanismo di revisione degli impegni ogni cinque anni. La revisione degli accordi di Parigi è avvenuta alla Cop26 che si è svolta dal 1° al 13 novembre 2021 a Glasgow.

Un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto
I negoziati hanno portato all’adozione del Glasgow Climate Pact, ritenuto da alcuni osservatori deludente e da altri come il migliore compromesso raggiungibile.
Per la prima volta in una conclusione della Cop, è stato introdotto un riferimento esplicito alla riduzione del consumo di carbone, le cui emissioni rappresentano quasi il 40% della CO2 emessa su scala globale. Si tratta dell’impegno più importante per la lotta al cambiamento climatico.
Nella sessione finale, l’India ha ottenuto l’inserimento di un emendamento che ammorbidisce il testo riguardante il carbone, smorzando l’efficacia dell’impegno preso. Non si parla più di phase out (eliminazione graduale), come originariamente proposto, ma di phase down (riduzione graduale). I nuovi impegni della COP26 costituiscono un miglioramento generale degli obiettivi di decarbonizzazione per il 2030, negoziati nel 2015 a Parigi. Alla COP26 quasi tutti i partecipanti hanno inserito un obiettivo di raggiungimento della neutralità carbonica, seppure con tempi diversi. Per l’Unione Europea, gli Stati Uniti e un altro gruppo di paesi tale la scadenza è il 2050, mentre la Cina e l’India hanno proposto rispettivamente il 2060 e il 2070.

Pareri discordanti
Sull’impatto degli impegni presi esistono pareri discordanti. L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha indicato che essi limiterebbero l’incremento di temperatura alla fine del secolo a 1,8°C e sarebbero, grosso modo, in linea con gli accordi di Parigi. Altre fonti sono meno ottimiste. Il Climate Action Tracker, un’organizzazione che monitora e calcola gli effetti sul clima degli impegni di decarbonizzazione sulla base degli accordi, pronostica un riscaldamento di 2,4 °C per la fine del secolo.
Esistono inoltre altri risultati positivi ottenuti a margine della conferenza. L’adesione di nuovi Stati e imprese alla Powering Past Alliance, una coalizione di 50 membri, che ha l’obiettivo di abbandonare completamente il carbone nella generazione di elettricità.
L’adesione di cento Stati a un’iniziativa guidata da Usa e Ue per la riduzione del 30% delle emissioni di metano entro il 2030. Il metano è un gas a effetto serra con un global warming potential 25 volte più elevato della CO2. In altre parole, in un arco temporale di 100 anni una tonnellata di metano riscalda come 25 tonnellate di CO2. Tale iniziativa permetterebbe di limare di 0,2 gradi l’incremento di temperatura previsto al 2030.
L’annuncio di Cina e Stati Uniti, che rappresentano circa il 40% delle emissioni globali, di un’intesa per la riduzione delle emissioni di gas serra entro il 2030, un periodo considerato cruciale per evitare l’aumento catastrofico del riscaldamento globale.

Sfide e opportunità per l’Unione europea

È importante ricordare come l’Unione europea si presenti e negozi alle Cop una posizione comune e non con obiettivi di singoli Stati membri. La riduzione dei gas serra del 55% all’orizzonte 2030 è infatti un obiettivo comune e condiviso e uno degli elementi cardine del Green Deal europeo. Il 14 luglio 2021 la Commissione europea aveva adottato il pacchetto “Fit for 55”; la sfida per l’Unione europea consisterà nell’approvare velocemente le proposte legislative del pacchetto “Fit for 55” in modo che esse diventino esecutive negli Stati membri.
Tuttavia, l’Ue rappresenta circa l’8% delle emissioni globali. Con la riduzione del 55% prevista per il 2030, questo contributo inciderà in maniera minore sul quadro globale rispetto ad altre potenze.
L’Ue dovrà affiancare le politiche interne alle politiche climatiche di cooperazione con i Paesi terzi per potenziare la sua azione per il clima. Senza iniziative che coinvolgano i governi degli altri otto miliardi di abitanti del pianeta, l’impegno europeo diventerebbe un ambientalismo di facciata. L’Ue sarebbe la prima della classe, ma ciò non condurrebbe necessariamente il mondo sulla via della decarbonizzazione.
È da tenere presente, inoltre, che le ricette europee per la transizione energetica e la decarbonizzazione non possono essere replicate nei Paesi in via di sviluppo, ma sono necessarie soluzioni à la carte che tengano conto delle specificità locali o regionali.

Il ruolo della Climate Diplomacy
Anche se l‘accordo della Cop26 è stato definito insoddisfacente e imperfetto, esso rappresenta in ogni caso un progresso nella lotta al cambiamento climatico. Sarà interessante vedere come le varie parti all’accordo concretizzeranno, con procedure legislative, gli impegni presi alla Cop26 in vista della Cop27, che avrà luogo nel 2022 in Egitto.
L’Unione europea invece di ritoccare al rialzo l’ambizioso traguardo di riduzione delle emissioni del 55% al 2030 dovrebbe concentrare i propri sforzi sulla cooperazione con i Paesi terzi, attuando la cosiddetta Climate Diplomacy.
Tali sforzi non richiederebbero necessariamente investimenti massici, ma una condivisione delle nostre politiche di decarbonizzazione e una promozione delle aziende europee che sono all’avanguardia nella transizione energetica e nella lotta al cambiamento climatico.

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