Di Sergio Fabbrini.
Articolo pubblicato da Il Sole 24 Ore.
I partiti socialdemocratici (che noi chiameremmo di centro-sinistra) sono in ripresa in diversi Paesi europei. Il 14 ottobre scorso, il leader laburista Jonas Gahr Støre è divenuto premier della Norvegia, il prossimo dicembre il leader socialdemocratico Olaf Scholz diventerà cancelliere della Germania.
In Italia, le ultime elezioni amministrative hanno consegnato ad esponenti socialdemocratici la sindacatura delle principali città. Per molti osservatori, il ciclo declinante della socialdemocrazia si sta concludendo. È così? C’è da dubitarne.
Cominciamo dall’inizio. Nei tre decenni post-bellici, quando la socialdemocrazia rappresentava una larga maggioranza della popolazione, si era venuto a realizzare il cosiddetto «compromesso socialdemocratico» (così definito dal sociologo tedesco-britannico Ralf Dahrendorf).
Quel compromesso aveva consentito di difendere gli interessi degli strati sociali più deboli (la constituency storica dei partiti di centro-sinistra) e contemporaneamente di promuovere una vitale economia di mercato. Nel nord Europa, dove quel compromesso aveva conseguito la sua implementazione più coerente, la difesa dei ceti più deboli era avvenuta attraverso politiche sociali (il welfare universalistico), mentre la promozione dell’economia di mercato era avvenuta attraverso politiche industriali (negoziate consensualmente tra le principali organizzazioni di interesse). Un sistema fiscale progressivo, gestito da uno stato efficiente, aveva costituito lo strumento per tenere in equilibrio crescita economica e redistribuzione dei redditi. Secondo Olaf Palme, premier socialdemocratico svedese assassinato nel 1986, «occorre nutrire la pecora (il capitalismo) se si vuole tosarne la lana con cui coprire chi sente freddo (i ceti deboli)». Quel compromesso è entrato in crisi con gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Negli anni Ottanta, la rivoluzione neoliberale mise in discussione il perno statale su cui quel compromesso poggiava ( «lo stato è il problema e non la soluzione», diceva Ronald Reagan). Negli anni Novanta, la globalizzazione, resa possibile dalla fine della Guerra Fredda, ne mise in discussione le basi sociali (l’apertura dei mercati modificò l’equilibrio tra capitale e lavoro, a favore del primo). Tant’è che, con il nuovo secolo, i partiti socialdemocratici sono declinati elettoralmente ovunque. La globalizzazione neoliberale ha potuto produrre i suoi effetti propulsivi (come l’innovazione tecnologica) e distorsivi (come l’incremento delle diseguaglianze) in loro assenza.
Seppure alcuni esponenti socialdemocratici si siano dimostrati consapevoli della necessità di alzare il livello della governance, la logica organizzativa e la pressione degli interessi (in particolare sindacali) rappresentanti hanno trattenuto la socialdemocrazia al livello della governance nazionale. Dopo tutto, il compromesso socialdemocratico era stato reso possibile dallo e nello stato nazionale. Ma come poteva sopravvivere quel compromesso nelle condizioni di mercati allargati e di società aperte che lo stato non poteva più contenere? Eppure, la prospettiva nazionale ha continuato a condizionare i partiti socialdemocratici. Durante la pandemia dell’anno scorso, i governi socialdemocratici del nord Europa aderirono alla coalizione dei Frugali, contraria al programma europeo di Next Generation EU (che prefigurava una autonomia fiscale europea), difendendo il primato dei programmi nazionali. Nella trattativa attualmente in corso in Germania per dare vita al nuovo governo, il futuro cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz ha sostenuto che il Patto di stabilità e crescita non dovrà essere cambiato dopo la pandemia, essendosi dimostrato «abbastanza flessibile per accomodare urgenze e differenze». Evidentemente, per Olaf Scholz, il «momento hamiltoniano» (di cui aveva parlato con Die Zeit il 19 maggio 2020) è svanito. Certamente, sul piano interno, Scholz si è impegnato a ridurre alcuni dei condizionamenti ordoliberali introdotti nel lungo periodo merkeliano. Se il pareggio di bilancio (Schuldenbremse) non verrà toccato (è una norma costituzionale, introdotta nel 2009, che richiederebbe la maggioranza qualificata dei membri del Bundestag per essere riformata), Scholz si è però impegnato a rivedere alcuni dei vincoli di spesa del sistema ordoliberale, promuovendo la domanda interna attraverso investimenti pubblici (per contrastare il cambiamento climatico), un incremento del salario minimo (da 9,60 a 12 euro) e l’introduzione di un reddito di cittadinanza (Bürgergeld). Si tratta di interventi importanti e necessari, finalizzati comunque a soddisfare gli interessi delle constituencies domestiche del partito socialdemocratico. Tuttavia, le loro implicazioni sull’Europa sono solamente indirette. Per l’economista tedesco Peter Bofinger, nel nuovo programma di governo «l’Europa ha una posizione secondaria come se la Germania a guida socialdemocratica potesse raggiungere i suoi obiettivi a prescindere da ciò che avverrà negli altri Paesi».
Insomma, la socialdemocrazia fa fatica ad affrontare il problema che è all’origine del suo declino. Sostiene l’integrazione sovranazionale, ma la sua visione continua ad essere nazionale. Eppure, come hanno spiegato nel loro recente volume due economisti italiani, Michele Salvati e Norberto Dilmore, il nuovo «compromesso socialdemocratico», per potersi realizzare, non potrà che avere una base europea, essendo evidenti i limiti dello stato nazionale. Scholz dovrebbe ricordarsi che andare al governo del proprio Paese non basta per interrompere il declino del proprio partito.