Di Massimo Gaggi
Articolo pubblicato dal Corriere della Sera.
Ancora dai contorni non del tutto definiti, il piano Biden per l’aumento della tassazione sulle imprese e una sostanziale omogeneizzazione del prelievo a livello internazionale sta suscitando qualche prevedibile reazione negativa del mondo imprenditoriale Usa, mentre l’accoglienza internazionale è ampiamente positiva.
Il presidente americano si dice disposto a modificare il suo progetto tenendo conto delle obiezioni, ma il disegno è chiaro: aumentare il prelievo complessivo di 2.500 miliardi di dollari in 15 anni (denaro che servirà a finanziare soprattutto il piano infrastrutture) lungo tre direttrici: un incremento delle imposte sui profitti delle imprese dal 21 al 28%; l’introduzione di una minimum tax del 15% sui profitti lordi (quelli vantati dalle aziende davanti agli azionisti) che dovrà essere pagata anche dai gruppi che poi, grazie al gioco delle detrazioni e con altri artifici contabili, riescono, legalmente, a non pagare imposte; l’introduzione di una tassa minima globale per evitare che, come accaduto prima delle modifiche fiscali introdotte nel 2017 dalla presidenza Trump, le società americane dotate di una struttura multinazionale preferiscano produrre all’estero dove riescono più facilmente a ridurre il carico fiscale.
L’obiettivo del governo Usa è di introdurre un prelievo minimo del 21% a livello internazionale.
Nei calcoli del Tesoro questa aliquota, inferiore a quella federale, dovrebbe comunque bastare a scoraggiare il trasferimento di produzioni americane all’estero.
Il primo a dirsi «un totale sostenitore della richiesta americana di introdurre una minimum corporate tax globale», presentata dagli Stati Uniti in sede Ocse è stato Mario Draghi nella doppia veste di capo del governo italiano e di presidente del Geo di quest’anno che certamente si occuperà anche di temi fiscali. Ma anche gli altri governi europei, dalla Francia alla Gran Bretagna, passando per Spagna e Olanda, hanno giudicato positivamente la novità.
Meno entusiasta l’Irlanda che fin qui ha usato strumenti di concorrenza tributaria per attrarre le multinazionali. Da tempo 135 Paesi sanno discutendo in sede Ocse della creazione di un sistema di tassazione internazionale delle imprese, fin qui con scarso successo.
In assenza di un coordinamento, abbiamo assistito alle ben note dispute in sede Ue con la denuncia dei giganti tecnologici americani che non pagano tasse sulle loro attività commerciali europee.
E che non pagavano imposte sui profitti esteri nemmeno negli Stati Uniti. La riforma Trump del 2017 ha colmato in parte questa falla ma solo dal punto di vista americano (è stata introdotta una sorta di minimum tax del 10,5%); gli europei hanno continuato a reagire in ordine sparso. Alcuni hanno varato digital tax alle quali l’Amministrazione Trump aveva reagito minacciando sanzioni nei confronti dei Paesi che tentano di tassare le compagnie americane di Big Tech.
Le reazioni positive dalle capitali del Vecchio continente riflettono la possibilità di superare questo clima di contrapposizioni creando un sistema omogeneo che garantirebbe anche agli europei un sensibile incremento delle entrate tributarie. Il piano Biden, assai meno radicale di quello che il leader democratico aveva presentato in campagna elettorale, dovrebbe penalizzare non solo le aziende tecnologiche ma tutte le grandi multinazionali. In base ai limiti di fatturato e redditività attualmente ipotizzati, i gruppi globalmente toccati da questo provvedimento potrebbero essere solo un centinaio. Mentre la minimum tax del 15% ipotizzata negli Usa per le imprese con profitti superiori ai 2 miliardi dovrebbe riguardare solo 45 società (tra le quali tutte le big tecnologiche). Giganti a parte, le imprese protestano soprattutto per l’aumento dell’imposta di base dal 21 al 28%, ma c’è chi già ipotizza un compromesso attorno a quota 25.