Sintesi dell’intervento di Paolo Segatti alla videoconferenza di Libertà Eguale Milano Lombardia sulle riforme istituzionali e la riforma della legge elettorale.
Nelle discussioni sulla legge elettorale è giustamente centrale l’interrogativo su quale sia il sistema che meglio assicuri una maggioranza parlamentare coesa, in grado cioè di dare stabilità ed efficacia all’azione di governo, e insieme il diritto di tribuna alle minoranze.
In questa nota vorrei però valutare le proposte di riforma elettorali da tre altri interrogativi. Non nuovi, gli ultimi due. Infatti presenti da sempre nei dibattiti sulle numerose riforme elettorali di questi decenni. Il primo invece mi pare venga spesso trascurato, ance se dovrebbe essere centrale per lo meno quanto quello relativo a come una legge elettorale può avere effetti majority assuring.
Il primo interrogativo riguarda il (dis)- funzionamento della rappresentanza politica in Italia. Una legge elettorale determina molti effetti diretti e indiretti sui comportamenti degli eletti e anche degli elettori. Il primo effetto (indiretto) su questi ultimi è la strutturazione della scelta di voto che a sua volta incide sulle modalità di rappresentanza. In sostanza ci si chiede quale legge elettorale potrebbe migliorare il rapporto tra rappresentati e rappresentanti nelle condizioni politiche attuali.
Il secondo interrogativo riguarda invece quale legge elettorale potrebbe convenire ad un partito come il Pd date le caratteristiche attuali del suo sostegno elettorale.
Il terzo interrogativo riguarda infine quale tipo di legge elettorale è realistico attendersi date le dinamiche tra gruppi parlamentari.
Una rappresentanza che non funziona
Il rapporto tra rappresentati e rappresentanti in Italia (e forse non solo) è da tempo in crisi. Né sono prova i comportamenti degli eletti e la poca fiducia che gli elettori riconoscono al parlamento, ai politici e ai partiti. La percezione diffusissima che gli eletti siano sordi a quello che gli elettori chiedono e interessati solo agli affari loro. Non è una percezione nuova. Negli ultimi anni si è combinata anche con la percezione che i parlamentari siano anche degli incapaci, più incompetenti dei cittadini. La scoperta recentissima che anche chi rilanciava con grande successo questa idea si è poi rivelato incompetente non vuole dire che quella percezione stia scemando.
Partiamo comunque dal primo aspetto. La frammentazione parlamentare è aumentata sensibilmente negli ultimi decenni. Gli italiani vengono invitati a scegliere tra un certo numero di opzioni alle elezioni e dopo pochi mesi si trovano un parlamento la cui composizione non è più la proiezione delle alternative presenti sulla scheda elettorale. Varie riforme dei regolamenti parlamentari hanno cercato di porre rimedio alla crescita del trasformismo, senza sostanziale successo. Il Pd propone ora una nuova riforma che dovrebbe disciplinare in modo organico l’intera materia. Speriamo proprio. Ma credo sia onesto riconoscere che una riforma dei regolamenti per quanto organica non può essere l’unico strumento per risolvere il problema di fondo, la diffusione tra chi viene eletto di un atteggiamento che interpreta in modo individualistico e in molti casi anche opportunistico l’articolo 67 (Cost) sul vincolo di mandato, squilibrando quindi il rapporto di rappresentanza.
È un atteggiamento incentivato certamente dalle molte opportunità offerte e dai pochi vincoli posti dai regolamenti esistenti. Ma primo di tutto è reso possibile dal progressivo venire meno delle risorse ex ante ed ex post che gli elettori possono usare per evitare che il rapporto di rappresentanza si squilibri a tal punto da rendere quasi inutile parlare di rappresentanza parlamentare. Il rapporto di rappresentanza è infatti ( lo ha insegnato Hanna Pitikin) sempre il risultato di un equilibrio instabile tra la necessaria autonomia di azione del rappresentante e la sua disponibilità a tener conto delle preferenze del rappresentato. Il rischio che gli eletti acquistino gradi crescenti di autonomia è sempre presente. Diventa così grande da rendere privo di senso parlare di rappresentanza quando vengono meno i controlli ex ante e quelli ex post di cui dispone un elettore per tenerlo sotto controllo.
Il controllo ex ante principale di cui dispone un elettore è selezionare bene chi viene eletto. Selezionare bene significa rendere possibile che gli elettori siano effettivamente arbitri della decisione su chi farsi rappresentare. La legge Calderoli ha negato alla radice ai cittadini questo potere. Ma qui vorrei proporre una riflessione sulle premesse non istituzionali che aiutano i cittadini a esercitare con una buona approssimazione il ruolo di arbitro. Per essere arbitri nella scelta del proprio rappresentante, selezionarlo bene cioè, occorre disporre di informazioni in generale sulle idee sul mondo e in particolare sulle opinioni relative alle questioni importanti di chi chiede di essere votato. In una democrazia di massa moltissimi elettori però non hanno a disposizione questo tipo di informazioni, e probabilmente molti di loro non sono nemmeno interessati a raccoglierle. Ma proprio per questo in una democrazia di massa sono necessari i partiti. Sono queste le organizzazioni che ci forniscono gli strumenti per valutare chi è e cosa pensa il candidato che chiede il nostro voto, anche quando abbiamo pochissime informazioni dirette su lui. In sostanza i partiti funzionano come un’agenzia di assicurazione. Garantiscono che quel candidato potrebbe essere una buona scelta, che ha posizioni sui vari temi che entro certi limiti coincidono come quelle di chi dovrebbe votarlo, che è inoltre affidabile nelle sue scelte future. È evidente che viste da questo punto di vista le primarie nella selezione delle candidature, se sono effettivamente tali, sono una straordinaria opportunità in più per acquisire maggiore informazioni su chi si propone al nostro voto.
I controlli ex post si basano invece sulla possibilità che un elettore ha di monitorare l’azione del rappresentante nell’esercizio della sua funzione. Anche in questo caso cruciali sono le informazioni. Benemerite sono le varie istituzioni che forniscono queste informazioni. Temo però che chi frequenti i siti come politico e openpolis o compulsi ogni giorno le pagine politiche dei giornali costituisca solo una frazione dell’elettorato di un paese. Dunque ancora una volta in una democrazia di massa la stampella informativa alla quale si appoggiano inevitabilmente gli elettori per valutare i comportamenti degli eletti sono i partiti. Sono i partiti che hanno gli strumenti per monitorare quello che un eletto fa in Parlamento e informarne suoi elettori. Soprattutto è il partito che si è votato che è chiamato a risponde del loro comportamento. Ancora una vota dunque alle scarse o nulle informazioni di cui dispone l’elettore sopperisce l’affidabilità dell’organizzazione. La credenza cioè che una organizzazione abbia un interesse alla sua reputazione maggiore degli eletti che ne fanno parte.
Per descrivere il ruolo dei partiti si è usato il presente. Ma si sarebbe dovuto usare il condizionale. Perché da tempo i partiti in Italia non riescono ad esercitare la funzione che dovrebbero svolgere per rendere possibile una democrazia di massa vibrante. Le ragioni sono moltissime. Ma ce n’è una che si può esprimere in modo iper-semplificato. I partiti riescono a garantire con efficace sia i controlli informativi ex ante che ex-post quando tanto tra gli elettori che tra gli eletti il senso di appartenenza ad un gruppo riflette anche una certa qual omogeneità di vedute sulle questioni particolari. Ora è proprio l’associazione tra appartenenza simbolica ad un partito o ad un campo ideologico e condivisione di preferenze sui temi particolari che è venuta meno da molto tempo in Italia e in altre democrazie. Forse a ben vedere non è stata mai una associazione molto forte, ma certo è che negli ultimi anni si ulteriormente allentata, in misura sensibilmente diversa da democrazia a democrazia. In Italia il divario tra appartenenza simbolica e il pensarla allo stesso modo sui temi in questione è particolarmente ampio. “Spiegare” le ragioni di ciò richiederebbe molto spazio. Ma il punto di fondo è comunque questo.
In questa situazione i partiti (in specie in Italia e soprattutto in questo decennio) non riescono ad essere più l’affidabile agenzia di assicurazione che dovrebbero essere per garantire una selezione non avversa e diminuire il rischio di comportamenti individualistici/opportunistici da parte dei parlamentari. Il che rende un auspicio più che una descrizione parlare di modello di rappresentanza fondato sui partiti. Questo modello guarda alla rappresentanza politica come ad un rapporto tra i molti che si candidano e gli ancora più numerosi che dovrebbero votarli. L’assunto di questo modello è che sia il partito, la sua capacità di attingere alle identità simboliche di gruppo per mettere nella stessa priorità le preferenze sulle questioni del momento sia degli eletti che degli elettori. Se volete governare la competizione tra gli eletti per sviluppi positivi alla loro carriera. Un dato che dovrebbe essere considerato naturale quanto l’ambizione politica. Se eccede è perché sono in crisi i partiti.
In queste circostanze una legge elettorale che proponga agli elettori di votare su liste di candidati potrebbe essere la soluzione per migliorare la qualità della rappresentanza politica?
A me pare di no. No, perché ciò che si è visto in questi anni nei comportamenti degli eletti di qualsiasi orientamento è un evidente indebolimento delle identità simboliche e dei loro vincoli. Mentre ciò che si è visto tra gli elettori è un ampliamento ulteriore del divario tra le appartenenze simboliche e l’espressione di opinione e le scelte di voto contingenti alla offerta politica del momento. Il successo dei 5 stelle è parte di questa storia. In questo quadro i partiti non riescono a dare nessuna garanzia né ex ante né ex post. Temo anche se volessero.
Di fronte a ciò a me pare che il collegio uninominale possa invece rispristinare, almeno tendenzialmente, un circolo virtuoso. Il modello di rappresentanza basato sul collegio uninominale guarda ad un rapporto, circoscritto in un territorio delimitato (da ritagliare sulla base di criteri oggetti, non come negli Usa), tra uno e i molti.
Il vantaggio di questo modello che i controlli informativi ex ante ed ex post su chi si candida e sui suoi comportamenti possono essere esercitati almeno in parte dagli stessi elettori. Il che mette le briglie ai candidati e agli eletti, almeno in parte.
Gli svantaggi di questo modello non sono pochi, soprattutto in una situazione in cui i partiti sono molto deboli. Il collegio uninominale da solo produce solo tante maggioranze quanti sono i collegi. Una maggioranza nazionale è possibile solo se nella testa degli elettori i candidati sono visti come referenti locali di entità nazionali (vedi Sartori). Il collegio uninominale potrebbe costruire rendite di posizione per i boss locali. Queste sono certe se il ritaglio del collegio è fatto con criteri di convenienza politica come negli Usa. Se il rischio dipende da variabili culturali, il problema si presenta anche con l’altro sistema. Anche nel modello di rappresentanza basato sul collegio uninominale esistono asimmetrie informative che possono venire ridotte grazie al ruolo dei partiti come emettitori di bollini di garanzia. Ma rispetto all’altro modello lo spazio delle informazioni dirette è potenzialmente più grande. So bene che questo si è verificato molto poco nelle tre elezioni con la legge Mattarella. Mi chiedo però se tre elezioni siano una prova definitiva, tenendo conto degli incentivi rappresentati dalla parte proporzionale.
Si potrebbe proseguire nell’elencare gli svantaggi. Ma già questi sono sufficienti per dire che il modello del collegio uninominale non è un toccasana.
Come sempre il problema va visto in prospettiva comparata. Al punto in cui siamo, penso sia giusto riconoscere che il modello del collegio ha al suo interno incentivi per allineare appartenenze simboliche alla condivisione di una stessa, o quasi, gerarchia di priorità sulle questioni contingenti. Mentre un modello basato sul rapporto tra molti e molti come accade sempre nei sistemi con liste di partiti (chiuse ma anche aperte-per ragioni diverse) non offre incentivi per ridurre quel divario. Indebolite le identità di partito, a chi viene eletto rimangono la sequela ad un leader e idee sulle opinioni dei propri elettori (non sto parlando dei grandi elettori o dei membri del circolo incontrati al lunedì) ricavate esclusivamente dai sondaggi. Spesso tra l’altro interpretati male nonostante la qualità del dato prodotto da molte agenzie di sondaggio.
Ma conviene al Pd un sistema proporzionale con voto di lista?
Sino a questo punto non ho minimamente accennato al tema della convenienza elettorale. Ma nella valutazione di un sistema elettorale il tema non può essere evitato. Anche in questo caso vorrei però riflettere su aspetti spesso trascurati, riconoscendo subito che non da oggi la principale forza di centro sinistra italiana è minoranza nel paese e con qualsiasi sistema elettorale è destinata anche ad essere minoranza politica in Parlamento.
Dal 2018 ad oggi il sostegno al Pd oscilla tra il 18 e il 20%. Il formato del sistema partitico nel frattempo è passato, si dice, da un formato tripolare ad una quadriglia di partiti con un consenso abbastanza equilibrato e che si collocano a detta dei loro leader sui due lati dello spettro ideologico. Di qui una delle ragioni a favore di un sistema proporzionale con coalizioni e premio di maggioranza alla coalizione vincente. Entrambe le rappresentazioni appaiono verosimili. Corrispondono ai dati di sondaggi. Vengono ribadite da vari autorevoli commentatori. Confortano le ansie dei diversi segmenti di ceto politico. Il loro difetto è che sono immagini statiche della realtà come lo era palesemente quella che descriveva il sistema post 2018 come tripolare, che ora tutti riconoscono essere cambiata. Sono immagini statiche perché non dicono nulla sulle dinamiche sottostanti. Scegliere un sistema proporzionale perché abbacinati dal risultato aggregato di quelle dinamiche è come farsi un abito che al momento di indossarlo (le elezioni vere e non i sondaggi) risulta di dimensioni sbagliate. Un rischio che tutti gli attori politici corrono in una situazione evidentemente fluida. Ma lo corre di più il PD, l’unica delle due forze politiche centrali della “seconda repubblica” rimasta di una certa dimensione.
Due sono le dinamiche latenti che hanno prodotto i risultati aggregati. La prima è una persistente polarizzazione affettiva/simbolica che ha sinora impedito trasmigrazioni di massa direttamente tra sinistra e destra e la seconda è l’attrazione esercitata da un’offerta che ha dato rappresentanza alla voce di elettori che ritenevano che Forza Italia e Pd avessero perso reputazione quanto alla loro capacità di governo e di dare una risposta al malessere degli italiani. L’esito delle elezioni del 2018 sono il prodotto di queste dinamiche. Si sono esaurite? A me non pare. Nel caso di Forza Italia è evidente. Ma anche nel caso del Pd.
Il 20% o giù di lì, di cui gode il Pd, probabilmente misura lo zoccolo duro del partito. Il che è una buona notizia. Meno buona se si osserva che il suo elettorato potenziale non è molto esteso. In parte è condiviso con quello dei 5 stelle. Il guaio è che, anche nell’ultimo anno, nella fascia di elettori condivisa prevale la disponibilità a votare 5 stelle. Nel campo invece del centro destra vi è una completa sovrapponibilità degli elettorati dei tre partiti ed è difficile dire quale dei due principali partiti sarà poi il primo alle prossime elezioni.
È possibile dunque che in competizioni con scrutinio di lista, dove quindi è l’immagine del partito quella che premia, il Pd si trovi ancora in una condizione fortemente svantaggiata. Forse anche nei confronti dei 5 Stelle.
La risorsa utile che di cui il Pd dispone non è l’immagine del partito, ma il suo radicamento sul territorio o quello che rimane di questa.
Nella situazione attuale al Pd converrebbe un sistema elettorale che consenta di far leva su questa risorsa. Un sistema a collegi uninominali, dunque, dove la competizione è incanalata sul candidato e il candidato ha incentivi per raggiungere anche elettori che non sono elettori abituali del suo partito o del suo campo. Quanto si è visto nelle ultime elezioni regionali, dove il fronte messo in campo dal Pd ha tenuto sul piano della scelta dei presidenti, ma non si è tradotto in una buona prestazione della lista Pd, suggerisce ancora una volta che il Pd va bene dove si affida al voto sulla persona. Il che vuole dire che ha ancora problemi di immagine. Questo capita anche per il campo di centro-destra. Non è un fenomeno privo di svantaggi, in alcuni contesti. Ma i tratti di cultura civica che caratterizzano i vari contesti territoriali italiani rappresentano una variabile indipendente dal dato politico che il Pd ha ancora problemi seri di reputazione. Una complicazione. Non una spiegazione.
Quanto realistico è aspettarsi che si arrivi ad una riforma elettorale e di quale tipo?
Poco realistico. Sarebbe giusto accompagnare le riforme dell’economia con una riforma istituzionale e costituzionale, tempi permettendo. Ma questo richiederebbe un minimo di fiducia reciproca tra i maggiori partiti che sostengono il governo Draghi. Una competizione per spartirsi gli eventuali suoi successi. Quello che si vede è invece una competizione finalizzata a ravvivare le proprie esangui identità simboliche. Ancora meno realistico è che si arrivi ad una riforma che affronti il nodo fondamentale dei problemi di funzionamento della rappresentanza. Che sia in grado di ricostruire la necessaria fiducia tra elettori ed eletti in una situazione di crisi dei partiti. L’ostacolo in questo caso è l’assenza da un lato di una considerazione sulla gravità della crisi della forma partito e dall’altro l’illusione in alcuni che basti ribadire che i partiti sono necessari in una democrazia per ridare loro slancio, senza mai affrontare il nodo che oggi le identità simboliche corrispondono drammaticamente poco alle preferenze sulle varie questioni degli eletti e degli elettori. E poi certo andrebbe considerato anche l’interesse alla sopravvivenza degli attuali eletti. Insomma il quadro non ispira ottimismo.