Di Marilù Tamburino
Mentre in Italia si ragionava di formazione del nuovo Governo, per una strana combinazione, ero in Francia proprio quando ricorreva un anno dalle elezioni del Presidente Macron e se non avevo facile accesso alle notizie dall’Italia, soffrendo, ero letteralmente subissata di quotidiani, inserti speciali e reportage televisivi che mettevano in evidenza luci ed ombre del nuovo potere presidenziale francese “e di destra e di sinistra” (più di destra, a dire dei francesi). L’OBS ha definito Macron, non a caso, come un presidente “gaullo-mitterandien”.
Guardare alla Francia in quei giorni, però, mi è servito per ragionare meglio di Italia.
Quel che mi ha colpito, tra tutti i commenti, è stato un articolo della rivista L’OBS del 26 aprile 2018 che, citando il politogo Nicolas Roussellier (“La force de gouverner”, ed. Gallimard, 2015), osserva che Macron si è posto senza indugio nella direzione che vuole in Francia il passaggio progressivo dalla repubblica parlamentare, fondata sul rigetto del potere personale, alla repubblica presidenziale, dotata di un capo supremo da cui origina la politica nazionale. Un rivolgimento completo della tradizione repubblicana delle origini. Ma di tutto l’articolo, la mia attenzione è stata attirata dalla nozione, introdotta dallo storico francese, di democrazia esecutiva.
In Italia ci si divide, lo sappiamo, tra difensori della democrazia rappresentativa e fautori della democrazia diretta, propugnata dai M5S, ma perché parlare in Francia di democrazia esecutiva?
Quando lo storico francese si riferisce alla nozione di “democrazia esecutiva” vuole riferirsi al fatto che i vecchi concetti di potere esecutivo e potere legislativo sono stati, in Francia, probabilmente superati e così lo è anche il “régime représentatif” – che potremmo tradurre come modello di democrazia rappresentativa. Non si dice che è superato il principio di separazione dei poteri, perché restano, comunque, distinti ma forse, aggiungo io, è superato certamente il loro bilanciamento, visto che vengono a concentrarsi in capo alla medesima Istituzione. Secondo lo storico, la democrazia esecutiva contemporanea rappresenta una forma di riabilitazione di quel “potere personale” che generazioni di repubblicani francesi avevano imparato a detestare nell’ottocento ed all’inizio del novecento: la democrazia esecutiva è riuscita a legittimare, in Francia, anche agli occhi della gauche, la necessità di concentrare la pressoché totalità dei poteri al servizio di un Esecutivo moderno e propulsivo.
Macron ha poi aggiunto un’impronta all’americana alla propria organizzazione: un Presidente ed un Gabinetto che orienta l’azione del Governo.
Vi è da chiedersi se anche in Italia ci si sia incamminati, quanto meno nelle prassi, più che in direzione di una repubblica presidenziale, verso una democrazia esecutiva.
E’ vero: il sistema istituzionale francese è differente dal sistema italiano ma quel che voglio qui rilevare è l’avvicinarsi delle democrazie, anche mature, ad un sistema istituzionale che, pur senza risultarne formalmente modificato, cerca la concentrazione dei poteri, all’insegna della necessità di un’azione governativa più efficace.
La globalizzazione non vuole tempi lenti di decisione ma rapide determinazioni e pare volersi accompagnare ad un deficit di democrazia rappresentativa, per come la conosciamo; quasi che democrazia sia l’equivalente di burocrazia.
In Francia, il Presidente pare esprimere già tale concentrazione di poteri, mentre in Italia, mi domando, se nel recente passato, abbiamo avuto forme “sotto traccia” di democrazia esecutiva: il “governismo”, di cui si è parlato di recente, ovvero l’appiattimento della politica del PD sull’azione di governo, senza un dibattito ed una condivisione interna al partito della linea politica del potere esecutivo ed una conseguente mortificazione del dibattito parlamentare e del potere legislativo espresso dalle Camere, è stato un passo nella direzione descritta?
Finora abbiamo parlato di leadership di partito, associato al premierato, misconoscendo il rischio che quando questa si associa all’esercizio effettivo di poteri istituzionali e di governo, si possa arrivare – nell’assenza di partiti, che possano bilanciare il peso del leader, con un vero dibattito interno anche conflittuale, – a parlare anche da noi di democrazia esecutiva, come espressione del “pouvoir personnel”.
Io spero di no ma è vero che, oggi, occorre ben parlarne anche guardando alla Francia, dicendo una volta per tutte se davvero quel modello ci piace.
Oggi si guarda a Macron per come sia riuscito ad affermarsi, senza avere neppure un partito, ma non si fanno ulteriori valutazioni né sui nuovi assetti di potere che ne sono seguiti nè sul gradimento dei francesi a distanza solo di un anno. Macron ha vinto con una sinistra allo sbando e con i partiti conservatori, in predicato di vincere, colpiti da indagini nella figura di Chirac, prima, e poi, di Fillon.
Macron ha vinto, allora, senza veri competitori. La destra però ancora esiste in Francia ed esprimerà sicuramente una nuova classe dirigente, per come pare intravvedersi.
La sinistra, sì, risulta al momento non pervenuta: può bastare questo per guardare a Macron, come ad un riferimento da imitare? Macron, poi, non è avvertito come uomo di sinistra dai francesi ma come uomo di destra.
In Italia, è invalso, come modello positivo, il sistema elettorale dei comuni che ha dato nel tempo buona prova di sé, permettendo l’alternanza ed un maggiore ricambio di classe dirigente: la figura del Sindaco rappresentava la sintesi delle proposte elettorali, venendone a rispondere, nel caso di mancata attuazione. Ma quando si parla di enti locali, si parla di amministrazione e non di governo e per quanto il sistema elettorale degli enti locali sia efficiente e possa costituire un modello di riferimento, non si può allo stesso modo pensare di esercitare il potere statale (che è anche legislativo) così come si governano le città. E, per un migliore esercizio della democrazia, mi pare necessario un diverso modo di guardare sia alla leadership sia alla organizzazione del partito che permetta il dialogo interno, senza che diventi conflitto permanente, sia alla costruzione di una linea politica condivisa step by step.
Siamo tutti chiamati ad esercitare il potere con maggiore efficienza perché il contesto europeo ed internazionale ce lo richiede ma occorre fare attenzione alle sirene provenienti dalla Francia: se Macron ha vinto facile, permanendo, in Francia, comunque, partiti tradizionali – se pur esausti – a garantire l’esercizio della democrazia; in Italia, quale partito è rimasto a salvaguardia della democrazia, se non il Partito democratico? Il PD è un patrimonio da non disperdere.
L’esperienza Macron mette in luce, a mio parere, un ulteriore tema: destra e sinistra non sono categorie politiche superate. Vorrei ricordare che Macron si è definito “e di destra e di sinistra” e non “né di destra né di sinistra”, come si vorrebbe in Italia, e che i francesi, intellettuali come gente comune, continuano ad osservarne l’azione politica secondo il consueto discrimine.
La vittoria di En Marche non mi convince né del fatto che sia una esperienza ripetibile né della sua opportunità, per tutte le ragioni sopra esposte, ed ancor più non mi convince che rappresenti un superamento delle categorie politiche della destra e della sinistra, quanto piuttosto mi convince del contrario, ossia che esse perdurano come sintesi di valori ed orientamenti politici. Mentre in passato erano termini significanti di linee politiche chiare per fare riferimento a classi e condizioni lavorative, oggi sono sintesi di valori ed orientamenti politici basati sulla libertà, il primo, sulla eguaglianza, il secondo. Possono esservi modulazioni all’interno dello stesso schieramento ma sono ancora termini che evocano una storia ed un significato.
Non è un caso che alle ultime elezioni amministrative laddove vi è un tessuto economico (ed anche politico) sano, il bipolarismo ha mantenuto la propria forza elettorale di richiamo, mentre solo al sud continua a sussistere un tripolarismo, per quanto percentualmente meno orientato al “né di destra né di sinistra”.
In breve, a mio parere, l’esperienza francese non permette alcuna scorciatoia.