Quando parliamo di democrazia, con riferimento alla forma di governo prevalente nei paesi economicamente più progrediti e istituzionalmente più avanzati, ci riferiamo a un “governo contendibile a legittimazione popolare passiva”, come Massimo Salvadori ci ha recentemente ricordato, aggiungendo il suo contributo di storico alla classica trattazione di Giovanni Sartori. Non certo a un governo in cui comanda il popolo, che è il significato del termine greco di democrazia. Nelle grandi nazioni contemporanee, ma così è sempre stato in situazioni stabili, il comando è nelle mani di pochi, e non può essere diversamente: in “democrazia” –uso le virgolette per indicare questo tipo di governo- i pochi sono però legittimati a governare da un processo di scelta, di elezione di rappresentanti. E oggi si tratta non solo di elezioni periodiche, libere, segrete, alle quali tutti i cittadini maggiorenni, maschi e femmine, possono partecipare. Ma di elezioni in cui tutti dispongono, associati in partiti e movimenti, anche del diritto di presentarsi alle elezioni e competere per la rappresentanza dei loro concittadini. Di conseguenza coloro che vincono le elezioni dispongono anche del potere di governarli: insomma, il governo è “contendibile” e il processo elettorale può essere descritto come una gara (o un mercato) in cui diversi partiti o movimenti competono per il governo del loro paese. Non è l’ideale, ma neppure una piccola cosa, se la confrontiamo a ciò che avveniva in passato.
Con questa ridefinizione procedurale di democrazia la gran parte degli storici e degli scienziati politici sarebbe d’accordo. Resta da spiegare l’aggettivo “passiva” con il quale Salvadori qualifica la legittimazione popolare mediante elezioni e il diritto a governare da parte della maggioranza. Passiva perché, rispetto a un ideale di legittimazione attiva, quella in cui tutti o la gran parte dei cittadini partecipano effettivamente alla formazione delle decisioni di governo –nell’Atene di Pericle o nei sogni/incubi odierni di governo diretto mediante la rete- la distanza è insuperabile. L’ideale è però potente perché discende dal principio di uguaglianza, di equivalenza politica di tutti i cittadini, ed ha animato la lunga lotta che ha condotto al suffragio universale (Rosanvallon). Quella lotta è stata vinta e oggi nessuno si sogna, salvo che nelle conversazioni da bar, di metterlo in dubbio, di discriminare tra i cittadini sulla base del reddito, dell’istruzione, della razza o di altri aspetti della loro identità personale o sociale. Ma questo riguarda solo il diritto di voto o di concorrere alle elezioni, l’elettorato attivo e passivo, salvo la possibilità di partecipare a referendum in casi ben definiti e circoscritti. Non riguarda il potere di partecipare direttamente alla formazione delle decisioni di governo: esso è riservato ai rappresentanti eletti e oltretutto l’esperienza e la riflessione sconsigliano di imporre loro un vincolo di mandato. Anzi, normalmente si concentra solo in una piccola parte di essi, coloro che fanno direttamente parte del governo.
E neppure riguarda un potere meno facilmente definibile, ma straordinariamente importante, quello di “influenza politica”: per influenzare le decisioni del governo non è necessario parteciparvi direttamente. Lo influenza, dall’esterno, la fitta rete di relazioni politiche, istituzionali, economiche e finanziarie in cui un paese, anche grande e potente, è immerso: la “democrazia” è frammentata in tante democrazie nazionali e non tener conto di queste influenze può provocare conseguenze negative che noi italiani dovremmo conoscere bene. E lo influenza, dall’interno, la differenza di condizioni economiche, sociali e culturali esistente tra i cittadini, una differenza inevitabile in società complesse e in un’economia di mercato: i ricchi e i potenti, se non i colti, hanno modi di influenzare le decisioni del governo che non sono disponibili al resto della popolazione. E allora?
Quanto alle influenze esterne si tratta di combattere per evitarne le conseguenze più dannose per il proprio Paese e, più in generale, per definire un regime politico ed economico internazionale che promuova condizioni pacifiche e di progresso civile ed economico a livello mondiale. Ci si era avvicinati a questo regime nei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale e ci si è allontanati –nei paesi capitalistici avanzati- con la globalizzazione neo-liberale predominante negli ultimi trenta (Dani Rodrik). Oggi sembra –se le bellicose dichiarazioni di Donald Trump saranno seguite dai fatti- che ci si avvii in una direzione ancor più preoccupante, quella del protezionismo, buttando via il bambino di relazioni internazionali aperte con l’acqua sporca dei loro eccessi. Le relazioni di egemonia e dipendenza tra stati stanno però al di fuori dello spazio nazionale delle democrazie: pur minacciato, è ancora in corso il grande esperimento dell’Unione Europea e mi auguro, con Sabino Cassese, che possa procedere anche se non si conforma a tutti i principi della teoria democratica.
Le influenze dei “ricchi e potenti” stanno però ben dentro i confini nazionali della democrazia e quindi dei poteri dello stato: non è possibile fare qualcosa per attenuarle? E’ possibile fare molto, e la differente qualità democratica delle “democrazie” dei paesi avanzati –basta un confronto tra il nostro Paese e quelli del Nord Europa- indica chiaramente la direzione in cui muoversi (Morlino). Oltre alle garanzie del costituzionalismo liberale, una buona amministrazione pubblica e una repressione efficace della corruzione, limiti al finanziamento dei partiti da parte dei grandi interessi economici, un’istruzione diffusa e di buona qualità, strumenti di informazione pluralistici e indipendenti, un reddito personale sufficiente e buone istituzioni di welfare sono tutti obiettivi raggiungibili mediante una politica di riforme compatibili con una “democrazia” tra virgolette, e ne aumenterebbero di molto la qualità. Non sono invece compatibili né il tentativo di attuare una democrazia diretta, né tentativi di realizzare una maggiore eguaglianza tra i cittadini che richiedano una forte restrizione delle libertà economiche. E’ vero che il mercato crea diseguaglianze che poi si riflettono in diversa influenza politica. Ma è vero anche che, senza mercato e senza indipendenza economica dei cittadini rispetto allo stato, la democrazia come la conosciamo sarebbe impossibile, come l’esperienza delle economie pianificate ha dimostrato (Salvati). E poi, anche in una società di eguali, anche in una società comunista, le differenze di influenza politica tornerebbero –in società complesse sono inevitabili- ma non tornerebbe la libertà.
La battaglia per una migliore “democrazia” si combatte su tanti fronti, spesso lontani dalla politica in senso stretto. E’ una grande fatica riformistica, che conosce vittorie e sconfitte, ma può conoscere progressi, a differenza della fatica di Sisifo. E va insieme, anzi è la stessa battaglia, per fare dell’Italia un paese civile, con un’economia avanzata e un’amministrazione onesta ed efficiente. Il resto sono sogni che possono trasformarsi in incubi.
Quando parliamo di democrazia, con riferimento alla forma di governo prevalente nei paesi economicamente più progrediti e istituzionalmente più avanzati, ci riferiamo a un “governo contendibile a legittimazione popolare passiva”, come Massimo Salvadori ci ha recentemente ricordato, aggiungendo il suo contributo di storico alla classica trattazione di Giovanni Sartori. Non certo a un governo in cui comanda il popolo, che è il significato del termine greco di democrazia. Nelle grandi nazioni contemporanee, ma così è sempre stato in situazioni stabili, il comando è nelle mani di pochi, e non può essere diversamente: in “democrazia” –uso le virgolette per indicare questo tipo di governo- i pochi sono però legittimati a governare da un processo di scelta, di elezione di rappresentanti. E oggi si tratta non solo di elezioni periodiche, libere, segrete, alle quali tutti i cittadini maggiorenni, maschi e femmine, possono partecipare. Ma di elezioni in cui tutti dispongono, associati in partiti e movimenti, anche del diritto di presentarsi alle elezioni e competere per la rappresentanza dei loro concittadini. Di conseguenza coloro che vincono le elezioni dispongono anche del potere di governarli: insomma, il governo è “contendibile” e il processo elettorale può essere descritto come una gara (o un mercato) in cui diversi partiti o movimenti competono per il governo del loro paese. Non è l’ideale, ma neppure una piccola cosa, se la confrontiamo a ciò che avveniva in passato.
Con questa ridefinizione procedurale di democrazia la gran parte degli storici e degli scienziati politici sarebbe d’accordo. Resta da spiegare l’aggettivo “passiva” con il quale Salvadori qualifica la legittimazione popolare mediante elezioni e il diritto a governare da parte della maggioranza. Passiva perché, rispetto a un ideale di legittimazione attiva, quella in cui tutti o la gran parte dei cittadini partecipano effettivamente alla formazione delle decisioni di governo –nell’Atene di Pericle o nei sogni/incubi odierni di governo diretto mediante la rete- la distanza è insuperabile. L’ideale è però potente perché discende dal principio di uguaglianza, di equivalenza politica di tutti i cittadini, ed ha animato la lunga lotta che ha condotto al suffragio universale (Rosanvallon). Quella lotta è stata vinta e oggi nessuno si sogna, salvo che nelle conversazioni da bar, di metterlo in dubbio, di discriminare tra i cittadini sulla base del reddito, dell’istruzione, della razza o di altri aspetti della loro identità personale o sociale. Ma questo riguarda solo il diritto di voto o di concorrere alle elezioni, l’elettorato attivo e passivo, salvo la possibilità di partecipare a referendum in casi ben definiti e circoscritti. Non riguarda il potere di partecipare direttamente alla formazione delle decisioni di governo: esso è riservato ai rappresentanti eletti e oltretutto l’esperienza e la riflessione sconsigliano di imporre loro un vincolo di mandato. Anzi, normalmente si concentra solo in una piccola parte di essi, coloro che fanno direttamente parte del governo.
E neppure riguarda un potere meno facilmente definibile, ma straordinariamente importante, quello di “influenza politica”: per influenzare le decisioni del governo non è necessario parteciparvi direttamente. Lo influenza, dall’esterno, la fitta rete di relazioni politiche, istituzionali, economiche e finanziarie in cui un paese, anche grande e potente, è immerso: la “democrazia” è frammentata in tante democrazie nazionali e non tener conto di queste influenze può provocare conseguenze negative che noi italiani dovremmo conoscere bene. E lo influenza, dall’interno, la differenza di condizioni economiche, sociali e culturali esistente tra i cittadini, una differenza inevitabile in società complesse e in un’economia di mercato: i ricchi e i potenti, se non i colti, hanno modi di influenzare le decisioni del governo che non sono disponibili al resto della popolazione. E allora?
Quanto alle influenze esterne si tratta di combattere per evitarne le conseguenze più dannose per il proprio Paese e, più in generale, per definire un regime politico ed economico internazionale che promuova condizioni pacifiche e di progresso civile ed economico a livello mondiale. Ci si era avvicinati a questo regime nei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale e ci si è allontanati –nei paesi capitalistici avanzati- con la globalizzazione neo-liberale predominante negli ultimi trenta (Dani Rodrik). Oggi sembra –se le bellicose dichiarazioni di Donald Trump saranno seguite dai fatti- che ci si avvii in una direzione ancor più preoccupante, quella del protezionismo, buttando via il bambino di relazioni internazionali aperte con l’acqua sporca dei loro eccessi. Le relazioni di egemonia e dipendenza tra stati stanno però al di fuori dello spazio nazionale delle democrazie: pur minacciato, è ancora in corso il grande esperimento dell’Unione Europea e mi auguro, con Sabino Cassese, che possa procedere anche se non si conforma a tutti i principi della teoria democratica.
Le influenze dei “ricchi e potenti” stanno però ben dentro i confini nazionali della democrazia e quindi dei poteri dello stato: non è possibile fare qualcosa per attenuarle? E’ possibile fare molto, e la differente qualità democratica delle “democrazie” dei paesi avanzati –basta un confronto tra il nostro Paese e quelli del Nord Europa- indica chiaramente la direzione in cui muoversi (Morlino). Oltre alle garanzie del costituzionalismo liberale, una buona amministrazione pubblica e una repressione efficace della corruzione, limiti al finanziamento dei partiti da parte dei grandi interessi economici, un’istruzione diffusa e di buona qualità, strumenti di informazione pluralistici e indipendenti, un reddito personale sufficiente e buone istituzioni di welfare sono tutti obiettivi raggiungibili mediante una politica di riforme compatibili con una “democrazia” tra virgolette, e ne aumenterebbero di molto la qualità. Non sono invece compatibili né il tentativo di attuare una democrazia diretta, né tentativi di realizzare una maggiore eguaglianza tra i cittadini che richiedano una forte restrizione delle libertà economiche. E’ vero che il mercato crea diseguaglianze che poi si riflettono in diversa influenza politica. Ma è vero anche che, senza mercato e senza indipendenza economica dei cittadini rispetto allo stato, la democrazia come la conosciamo sarebbe impossibile, come l’esperienza delle economie pianificate ha dimostrato (Salvati). E poi, anche in una società di eguali, anche in una società comunista, le differenze di influenza politica tornerebbero –in società complesse sono inevitabili- ma non tornerebbe la libertà.
La battaglia per una migliore “democrazia” si combatte su tanti fronti, spesso lontani dalla politica in senso stretto. E’ una grande fatica riformistica, che conosce vittorie e sconfitte, ma può conoscere progressi, a differenza della fatica di Sisifo. E va insieme, anzi è la stessa battaglia, per fare dell’Italia un paese civile, con un’economia avanzata e un’amministrazione onesta ed efficiente. Il resto sono sogni che possono trasformarsi in incubi.
[La Lettura, 19/2/17, col titolo:”Inutile inseguire sogni ambigui:la democrazia è solo riformista”]
Massimo L. Salvadori, Democrazia, Donzelli
Giovanni Sartori, La democrazia: cosa è, Rizzoli
Pierre Rosanvallon, La rivoluzione dell’eguaglianza, Anabasi
Dani Rodrik. La globalizzazione intelligente, Laterza
Sabino Cassese, La democrazia e i suoi limiti, Mondadori
Leonardo Morlino, Democrazie e democratizzazioni, Mulino
Michele Salvati, Capitalismo, mercato e democrazia, Mulino