XIV ASSEMBLEA ANNUALE LIBERTA’ EGUALE
ORVIETO Palazzo del Capitano del Popolo
12 GENNAIO 2013
PERCHÈ QUESTA ASSEMBLEA
Vorrei partire da una obiezione politica alla nostra decisione di dedicare l ‘Assemblea di LibertàEguale, in piena campagna elettorale, alla minaccia populista: “è poi davvero così seria, questa minaccia? Non la state agitando oltre misura, a mero fine di battaglia interna al campo del centro-sinistra”?
Rispondo che penso esattamente l’opposto. Che cioè il rischio sia gravissimo e che lo stiamo sottovalutando.
Non mi riferisco tanto alla previsione del consenso che formazioni di orientamento populista potrebbero registrare alle prossime elezioni: secondo i sondaggi, Lega, PDL, Movimento 5 stelle e lista Ingroia potrebbero superare, sommati, il 30% dei consensi. Cui andrebbero aggiunti, per una valutazione seria delle pulsioni populistiche che si agitano nella pancia della società, una quota di elettori che scelgono l’astensione.
So bene che si tratta di partiti e forze diverse. Non ho dimenticato che una delle principali doti del riformista e la capacità di distinguere. Ma è difficile non vedere ciò che tende ad accomunarli: l’Unione Europea è una camicia di forza; l’Euro qualcosa cui si può rinunciare senza danno; la crisi del debito sovrano un’invenzione degli speculatori della grande finanza; l’IMU (non la pressione fiscale sul lavoro, da record mondiale) la più ingiusta delle imposte; la politica e le istituzioni la mangiatoia di una casta di professionisti; il Fiscal Compact uno strumento del dominio tedesco… .
Data la scelta del PDL di tentare il recupero dei consensi perduti attraverso la leadership di Berlusconi e sulla base di una piattaforma nella quale campeggiano alcune delle posizioni che ho appena richiamato, è prevedibile che il cammino del futuro governo – anche in presenza di una netta affermazione del PD, sia alla Camera, sia al Senato – sarà ingombrato dall’azione di contrasto di ingenti forze populiste.
Ma non è questo il rischio maggiore. Questo io lo vedo nella possibilità che nelle tre Regioni del Nord, dopo una vittoria elettorale di Maroni, prenda forma istituzionale una minaccia alla coesione nazionale (e, quindi, all’Unione Europea) sotto la forma di una rivolta fiscale guidata dai tre Presidenti leghisti.
Attenzione. Questo è un Paese dove la spesa pubblica supera il 50% del Prodotto, producendo risultati di sostegno allo sviluppo e lotta all’ineguaglianze assolutamente sproporzionati. È un Paese nel quale il Total Tax Rate, la pressione fiscale sui produttori, impresa e lavoro – è da record assoluto tra i Paesi europei. È un Paese nel quale le capacità produttive di beni e servizi si concentrano nel Nord, essendo miseramente falliti tutti gli sforzi, pur molto costosi, di riequilibrio.
Se tutto questo è vero, allora il rischio è serissimo. E c’è un sol modo di scongiurarlo: vincere in Italia e in Lombardia, sulla base di un progetto di svolta federalista che fondi su basi più solide una nuova idea di autogoverno delle comunità locali e di coesione nazionale.
Se siamo giunti a tanto pericolo è infatti, ancora una volta, come ci ha spiegato stamani Pietro Reichlin, per deficit riformistico: è per il federalismo a corrente alternata – in rapporto ai successi o agli insuccessi della Lega – che è entrato e uscito dal programma fondamentale dei partiti del centro-sinistra. Uno stop and go che è un segno di profonda subalternità politica e culturale. È per i ritardi con cui giungiamo alla riforma del modello contrattuale, per affermare la centralità della contrattazione di secondo livello.
La legislatura che sta per finire era iniziata con la maggioranza di Lega e PDL orientata a tradurre in legge nazionale il ddl approvato dal Consiglio Regionale lombardo, e l’opposizione del PD impegnata a contrapporgli una proposta di attuazione del nuovo art. 119 della Costituzione ispirata al federalismo solidale.
Si discusse e si votò, nel PD, per scegliere l’atteggiamento da tenere: di mera ostruzione, fidando nelle contraddizioni interne alla maggioranza, o di aperta sfida riformatrice? Prevalse la seconda scelta. Ma fu un fuoco di paglia. Presto ci siamo fatti attrarre nella inconcludenza del governo, quasi ne fossimo soddisfatti. Tanto che anche dopo la formazione del governo Monti, il tema è restato assolutamente marginale, malgrado la centralità della revisione della spesa ne riproponesse il ruolo cruciale. Altrettanto può dirsi per la riforma del modello contrattuale. Ci si è arrivati, sì, ma renitenti, trascinati. Come se fosse “cosa d’altri”, non il cuore del nostro progetto, come avremmo dovuto sapere, noi riformisti, dopo l’esempio che ci venne fornito dai Governi rosso-verdi di Schroeder e Fisher negli anni 2000.
Ecco da dove nascono le difficoltà e i rischi di oggi. Superabili? Certamente sì. Ma non attraverso piccole correzioni di linea. Non senza riflettere in modo trasparente sui limiti del nostro recente lavoro. Non senza vedere che, se c’è un ordine di priorità per i riformisti – qui e ora – è quello che mette al primo posto del programma di cambiamento un solido progetto federalista, da far valere a Roma e a Milano, come fondamento di una rinnovata unità nazionale. Se la nostra Assemblea sortisse anche solo l’effetto di segnalarne l’esigenza e l’urgenza, già dimostrerebbe la sua utilità.
La splendida relazione di Antonio Funiciello ha chiarito come meglio non si poteva i termini del contrasto – ma anche i punti di contatto teorici e storici – di riformismo e populismo.
Il Presidente Monti – che ancora ringrazio per l’entusiasmo e l’impegno con cui ha accolto il nostro invito a fornire un contributo a questa discussione sulla minaccia che il populismo fa gravare sul futuro dell’Europa – ci ha dato conto di come le prospettive di fuoriuscita dell’Unione Europea dalla crisi che ne minaccia l’esistenza stessa siano legate alla capacità dei principali governi europei di convergere verso scelte di progressiva cessione di sovranità ad organismi comunitari, che bisogna contemporaneamente rendere più democratici. E ci ha detto che l’incapacità di procedere speditamente su questa strada – l’unica che porta a mettere in comune la gestione di quote del debito sovrano e a ridurre le esplosive divergenze di produttività e bilancia dei pagamenti – può dare alimento ad un’offensiva di forze populiste che – pur diverse tra loro per matrice culturale e radici sociali – sono tuttavia accomunate dall’ostilità verso l’integrazione e spingono per la rinazionalizzazione delle politiche economiche, a sua volta premessa di un vero e proprio regresso del processo unitario.
Vorrei dire al Presidente Monti che noi di LibertàEguale abbiamo l’ambizione di iscrivere questa nostra Assemblea dentro il processo di elaborazione e azione politica che porterà a tenere quel Consiglio europeo informale sui rischi del populismo, e sulla politica e le politiche necessarie a scongiurarli, che proprio Monti ha proposto la scorsa estate, trovando attenzione e consenso tra i capi di stato e di governo dell’Unione.
Infine, il dibattito che ha fatto seguito alla relazione ha sviluppato le implicazioni, sia di metodo, sia di merito, per rendere l’azione dei riformisti più efficace e più popolare. Già, più popolare. Perchè questo è il nodo cruciale, l’ostacolo non saltato dai riformisti, né in Europa, né in Italia. Esso è ben descritto da quello che la pubblicistica ci ha consegnato come “teorema Junker”: le riforme necessarie per uscire dalla crisi sono esattamente quelle che fanno perdere le elezioni ai governi che le hanno adottate o hanno contribuito ad adottarle”.
Nel nostro Paese – alla fine degli anni ’90, dopo la sconfitta dell’Ulivo alle elezioni del 2001 – abbiamo lungamente discusso di “riformismo dall’alto”, per dire sostanzialmente la stessa cosa: noi sapevamo cosa fare; l’abbiamo fatto, ma il popolo non ci ha seguito, un po’ perchè non abbiamo saputo spiegarci e molto perchè non hanno capito.
Anche la discussione di questa giornata dimostra che non è questione di riformismo dall’alto o riformismo dal basso. È questione di qualità del riformismo. Antonio Funiciello, nella relazione, ha citato Bernstein, come fonte tutt’ora generosa del riformismo di qualità. Ebbene, Bernstein fondò la sua revisione delle architravi ideologiche del partito socialdemocratico proprio sul salto da partito di classe a partito di popolo. Allora, nel 1909, gli diedero tutti torto, nella SPD. Tutti, in senso tecnico. Ma, dopo 50 anni esatti, a Bad Godesberg, gli diedero tutti ragione, e proclamarono l’SPD partito “di popolo”.
È da allora che dovrebbe essere chiaro a tutti che, se è senza popolo, non è riformismo.
Ecco perchè, in questo intervento conclusivo, vorrei esaminare due “casi” di successo dei populisti e di sconfitta dei riformisti, tratti dalla cronaca italiana di questi giorni, per trarne qualche indicazione, utile ad attrezzare meglio i riformisti nella acutizzata e drammatica tenzone con i populisti. Il primo è il caso della regolazione del sistema bancario, il secondo è il caso Alitalia.
Prima, però, voglio dire qualche parola chiara sul nostro campo, sul campo di forze, di tradizioni, di idee di cui noi ci sentiamo parte: noi liberalsocialisti, noi liberaldemocratici, noi democratici. È il campo della sinistra. L’ha detto Antonio Funiciello nella relazione, lo hanno ripetuto in tanti, a partire da Mancina e Salvati: la distinzione tra destra e sinistra continua ad essere feconda, per la descrizione del conflitto sociale e politico contemporaneo. Certo, essa non esaurisce in sè tutto il conflitto: Salvati lo ha dimostrato da par suo, parlando di una destra che può essere – anche se in Italia lo è stata e lo è poco – contro la corruzione, o contro l’evasione, o contro l’inefficienza della Pubblica Amministrazione, senza cessare di essere se stessa. Ma, credo di poterlo dire anche a nome vostro, sulla base del dibattito di oggi, noi non siamo d’accordo con il professor Monti, quando sostiene che oggi – in Europa – l’asse destra-sinistra è politicamente meno fecondo di quello nord-Sud, o di quello che distingue chi frena l’integrazione da chi la promuove. E nessuno può onestamente giocare sull’equivoco: una cosa è l’Agenda Monti, un’altra cosa è la lista Monti.
Ma, una volta detto questo, risulta evidente quale è il nucleo centrale della battaglia politico-culturale di cui siamo stati e vogliamo continuare ad essere protagonisti: noi non ci fasciamo gli occhi per non vedere che se è vero che c’è sinistra contrapposta a destra, è altrettanto vero che ci sono due sinistre. Quella dell’uguaglianza liberale, di cui noi siamo parte. E quella di orientamento più tradizionalmente laburista, che non vuole abbandonare i fasti, che in effetti furono gloriosi, del secolo socialdemocratico. Lo voglio ripetere, perchè ho visto che persino tra gli amici e i compagni più vicini è cresciuto un dubbio, per me addirittura improponibile: la differenza tra le due sinistre non consiste nel fatto che i sostenitori della prima non perseguono più l’eguaglianza, non vogliono più il riscatto dei più deboli (e perciò scivolano verso la destra, magari pulita e compassionevole, ma destra); mentre i sostenitori della seconda hanno nell’eguaglianza la loro bussola (e pazienza se sono un pò statalisti: si correggeranno nel governare). No. L’equità è l’obiettivo comune. La differenza è tutta e solo nel come. La strada indicata dalla prima, è irta, ma arriva all’eguaglianza liberale (il movimento è tutto…). Quella indicata dalla seconda, ha già dato il meglio di sè e può solo indurci a “conservare e difendere” le gloriose conquiste del passato. Lasciando fuori chi, da quel passato, non può essere difeso semplicemente perchè è un “nuovo” escluso.
Concordo con Mancina, quando segnala che in Italia il conflitto tra le due sinistre è ulteriormente complicato dal persistere di “coordinate mentali” del vecchio PCI mai davvero ed esplicitamente abbandonate; e con Pietro Reichlin, quando chiarisce che non è proponibile la divisione del lavoro tra liberal (il rigore) e i laburisti (l’equità), quasi che la nuova sinistra fosse il frutto di un compromesso – la sintesi – in chiave neocorporativa tra queste due istanze.
In ogni caso, su questo e per concludere: noi non pretendiamo di essere l’unica sinistra possibile. Pretendiamo però che sia riconosciuto ciò che è ovvio: che la nostra ricerca, il nostro lavoro, si sviluppa nel campo della sinistra, di cui facciamo parte a pieno titolo.
Ma veniamo ai due “casi”: banche e Alitalia.
POPULISMO E BANCHE
– Nulla può rendere chiaro il contrasto tra riformismo e populismo – di destra o di sinistra che sia – quanto l’esame del rapporto tra politica e banche, prima della recessione esplosa nel 2007 e durante la gestione della stessa, fino ad oggi.
– Non torno ora sulla descrizione delle enormi – anche se non esclusive – responsabilità del sistema bancario nel determinare la Grande Recessione:
1) Leve finanziarie lunghissime, esasperate dall’assunzione di rischi talmente grandi, in ogni medio-grande istituto di credito, da assumere dimensione sistemica;
2) Creazione, in questo contesto, di un vero e proprio sistema bancario ombra, sottratto ad ogni regola di vigilanza;
3) Spropositati premi ai top-manager, privilegiando i risultati a breve e a brevissimo, spingendoli ad assumere rischi sempre più grandi, sulla base del principio “se va bene guadagno io, se va male io me ne vado col bottino e paga Pantalone”!
– Se le cose stanno così, la differenza tra riformisti e populisti non è – come questi ultimi vorrebbero far credere – tra chi è amico dei banchieri e chi è loro nemico; tra chi chiude un occhio – o tutti e due – sulle loro responsabilità e chi è intransigente nel denunciarle e invoca per loro punizioni esemplari; ma tra chi vede nella deregolazione del sistema bancario e finanziario una causa della crisi, da rimuovere attraverso una nuova regolazione, e chi agita le “colpe” delle banche di fronte ai cittadini inferociti, sfruttando la loro indignazione, per la costruzione di consenso facile, ma si guarda bene dal compromettersi con nuove proposte di regolazione. Con la scusa che, in questo campo, le soluzioni di cambiamento, le riforme, sollevano grandi contrasti; e sono di difficile gestione, perchè complicate tecnicamente e non argomentabili nei 45 secondi di una dichiarazione urlata in TV o in un tweet, che sono invece adattissimi per la propagazione dell’urlo indignato.
– Tutto ciò finisce per essere un’arma formidabile a difesa degli interessi costituiti, dello status quo; e quindi, in primo luogo, degli odiati banchieri. Perchè impedisce che vengano al centro dell’agone politico e culturale le risposte al quesito fondamentale: come si evita che le banche possano domani causare danni sistemici, come hanno fatto prima del 2008?
– Può così accadere quello che è accaduto in questi giorni: tutti ad applaudire il rinvio di Basilea 3. Ad applaudirlo in sè, come rinvio di un boccone amaro. Non come presa di tempo per attuare riforme più radicali, che infatti nessuno propone. Tutti contenti: i riformisti tiepidi (tanto tiepidi da risultare freddi) e i populisti.
I primi, perchè “qualcosa cambierà – i requisiti di capitale e di liquidità – ma non subito: ci avrebbe rimesso il credito alle imprese”. I secondi, perchè potranno continuare a far campagna contro banche e banchieri, senza sporcarsi le mani con le soluzioni possibili.
– È qui che il riformismo radicale deve far valere la sua diversità qualitativa: utilizzare la sacrosanta protesta popolare contro gli eccessi e i guasti della finanza per dare forza a nuove risposte di regolazione, ispirate a due precisi principi.
o Il primo: se il problema è stato ed è l’eccesso di rischio, bisogna pesantemente tassare il rischio stesso. E non con versioni edulcorate e parziali di Tobin Tax. Ma con un prelievo che cresce con la crescita del rischio. In Parlamento, da tre anni, giace una mia proposta – ben più aggressiva della tassazione sulle transazioni finanziarie recentemente introdotta – di tassazione progressiva della leva finanziaria degli istituti di credito.
o Il secondo: bisogna imporre, alle banche, veri e propri divieti allo svolgimento di attività troppo rischiose. È impressionante, sul punto, il silenzio della sinistra in Europa, a fronte del tentativo – più o meno riuscito (per ora, meno) di Obama, con la Dodd Frank – di reintrodurre qualche forma di separazione tra banca commerciale e banca d’investimento.
– Due principi ispiratori che sono stati completamente negletti – per debolezza del riformismo -, mentre ha avuto la meglio su tutto il tentativo di agire preventivamente – ecco l’architrave dei vari accordi di Basilea 1, 2, 3…. – attraverso la ponderazione del rischio. Un approccio, quest’ultimo, che presenta un limite evidente: è figlio della presunzione che il rischio sia sempre perfettamente misurabile. Ma questa ubris intellettuale – Merton ha preso il Nobel, per la teoria del “portafoglio privo di rischi” – è stato uno dei fondamentali fattori che ha portato all’ingigantirsi del rischio sistemico, cioè alla tragedia del “troppo grande per fallire” – pagata dai contribuenti con migliaia di miliardi di dollari di debito pubblico e milioni di disoccupati in più. Un approccio alla regolazione del sistema bancario – questo esclusivamente organizzato attorno alle ponderazione del rischio – che è stato naturalmente accettato da tutti: dai partiti populisti e da quelli sensibili alle sirene populiste, perchè consente di continuare ad urlare contro banche e “bankster”; dai partiti del moderatismo conservatore perchè, almeno apparentemente, consente di erogare credito a tutti; e dalle banche, autorizzate in sostanza ad automisurare il proprio rischio, sottoponendosi a qualche stress test, più o meno impegnativo.
IL CASO ALITALIA
– Proprio in questi giorni, l’epilogo della vicenda Alitalia ci fornisce un’altro caso di studio sui caratteri del contrasto tra riformismo e populismo – nelle sue versioni di destra e di sinistra.
Ricordiamo tutti come è cominciata: il Governo Prodi, all’inizio del 2008, progetta di vendere Alitalia ad Air France, che si impegna a pagarla con un concambio di azioni, tale da consentire al governo italiano di essere presente nell’assetto proprietario di un vero e proprio campione europeo del trasporto aereo.
Berlusconi e la Lega scatenano il finimondo, con tutto il variegato armamentario del populismo: la difesa della italianità, i capitani coraggiosi (più o meno sempre gli stessi, da Telecom in poi…) pronti a mettere mano al portafoglio, il Nord penalizzato da Roma ladra di slot per Fiumicino, le banche italianissime pronte a fare fino in fondo la loro parte…
Naturalmente, ognuna di queste roboanti affermazioni serve per occultare una realtà del tutto opposta: l’italianità non c’entra nulla, perchè all’integrazione con Air France bisogna comunque procedere (e non solo sul versante operativo; anche su quello dell’assetto proprietario: Air France, infatti, arriva quasi subito a possedere il 25% della CAI, la nuova Compagnia Area Italiana). I capitani coraggiosi si sono fatti coraggio coi soldi dei contribuenti (malcontati, 3,2 mld di Euro tra il 2008 ed oggi); e oggi – meglio, da domani, 13 gennaio 2013, quando scade l’impegno al mantenimento del possesso delle azioni – sono tutti orientati a vendere le loro quote, pretendendo di incassare un premio – almeno del 30%, dicono i più – rispetto al capitale versato nel 2008. Di Malpensa si sta comunque facendo quello che si sarebbe potuto fare a partire dal 2008, e la CAI sta vendendo slot a Heathrow per tentare di tappare i buchi di gestione. Mentre le banche, che vantavano crediti enormi da Air One, hanno approfittato dello “sforzo nazionale” loro richiesto per rientrare di ciò che erano obbligate a dare per perso. E tutto quello cui si può aspirare in questo momento è che a comprare la “compagnia di bandiera” non sia la transalpina Air France, ma Etihad, la compagnia degli Emirati Arabi. Evidentemente, più che l’amore per l’italianità e la “sicurezza” delle imprese strategiche, può il desiderio di arricchimento degli attuali proprietari di CAI.
– Se vi ho fatto perdere tempo per descrivere l’esito prevedibile e infausto della vicenda Alitalia, non è per fare un po’ di sacrosanta polemica contro il centrodestra di Lega e PDL, che non hanno esitato a strumentalizzare la crisi Alitalia a fini di immediato tornaconto elettorale.
Ma perchè questa vicenda mette in evidenza come sia stato facile, esasperando l’obiettivo della italianità, costruire un vasto consenso attorno ad una soluzione che ha leso gravemente l’interesse nazionale, per favorire interessi di parte.
Anche in questo caso, ci siamo rivelati incapaci – noi riformisti più conseguenti – di rendere popolari soluzioni disponibili, che avrebbero meglio tutelato l’interesse del Paese a mantenere efficaci strumenti di controllo su scelte di rilievo strategico nel settore del trasporto aereo.
Perchè di questo, alla fine, si tratta: dietro le ricorrenti campagne a difesa della italianità delle poche, grandi corporation, c’è più spesso l’obiettivo di difendere gli attuali assetti proprietari delle imprese, quasi sempre organizzati in oscuri patti di sindacato, a loro volta attraversati da giganteschi conflitti di interesse e orientati alla tutela di chi detiene il controllo, a tutto danno degli azionisti di minoranza. Col risultato che anche le più spettacolari operazioni di acquisizione del controllo da parte di nuovi padroni avviene, in Italia, strapagando i vecchi detentori del controllo con soldi messi a debito della società acquisita. Così quest’ultima, oberata di debiti, non è in grado di fare investimenti, di cui pure avrebbe bisogno per crescere.
Una realtà conosciuta e largamente tollerata dai populisti di sinistra, che si divertono a “mandare gli straricchi al diavolo”, ma non sono in grado di avanzare una proposta una su come si smonta l’inferno del capitalismo “relazionale” italiano. Una realtà troppo a lungo trascurata dai riformisti, anche in questo caso incapaci di organizzare l’insofferenza e la protesta di milioni di piccoli risparmiatori, di milioni di utenti dei servizi a rete, dei lavoratori di queste grandi imprese, per metterla a sostegno di riforme della regolazione dei mercati dei capitali e dei sistemi di governance, comprese le regole per il mantenimento in capo allo Stato di diritti speciali sulle scelte strategiche di queste imprese; e per nuove forme di partecipazione dei lavoratori alla loro gestione.
TRE INDICAZIONI DI METODO, PER RIFORMISTI CONSEGUENTI
– Due casi molto diversi, tra di loro, dalla cui analisi possiamo però estrarre tre indicazioni utilissime per attrezzare il riformismo nella battaglia che lo oppone al populismo:
1° la complessità tecnica dei problemi e delle soluzioni non giustifica la fuga o l’inazione dei riformisti. Certo. I populisti hanno gioco facile nell’individuare non le cause, ma i colpevoli, veri o presunti che siano (la fabbrica degli untori è sempre aperta), di ogni problema che generi sofferenza e protesta sociale. E nell’organizzare la protesta contro. Ma se i riformisti sono degni del nome che pretendono di portare, debbono essere in grado di semplificare il messaggio sulle loro soluzioni, rendendole a loro volta popolari. Il rigore analitico e la corrispondenza tra causa del problema e carattere della soluzione può sempre tradursi in un messaggio comprensibile e mobilitante: lo dimostrò Di Vittorio, al Congresso della CGIL del 1949, in un contesto ben più difficile di quello attuale, quando – affrontando il tema delle eventuali conseguenze inflazionistiche del finanziamento in deficit del Piano del lavoro – si sforzò di spiegare ad una platea di operai e braccianti che queste conseguenze – che pure non andavano trascurate – avrebbero potuto essere mantenute sotto controllo grazie al fatto che nuove centrali idroelettriche, case dignitose, canali per portare l’acqua nei campi potevano essere realizzati utilizzando lavoratori, materiali e impianti non utilizzati e disponibili sul mercato interno. Di questa relazione tra livello dell’inflazione e livello della disoccupazione dovevano avergli parlato i giovani economisti che avevano studiato Keynes e collaboravano con la CGIL alla preparazione del Piano. Teorie e analisi complesse, molto complesse e d’avanguardia (la curva di Phillips sarà compiutamente elaborata nel 1958), che evidentemente Di Vittorio non aveva considerato intraducibili nel discorso che un intelligente delegato dei braccianti potesse capire. Del resto, sul punto, proprio Keynes nel 1928, redigendo un manifesto politico a favore dell’intervento dello Stato per creare occupazione, aveva dimostrato di saper tradurre in linguaggio popolare le sue acquisizioni teoriche: “C’è bisogno del lavoro da fare; ci sono gli uomini per farlo. Perchè non metterli assieme?”
2° Non è mai una buona idea, per i riformisti, rinviare ad una fase successiva la soluzione che va alla radice del problema, affrontandone subito gli aspetti marginali. I populisti li sovrasteranno facilmente, mostrando il persistere del disagio e della sofferenza sociale, economica o politica, così delegittimando irrimediabilmente la strategia riformista. Se non bastano gli esempi forniti dai due “casi” banche e Alitalia, la validità di questa prescrizione può bene essere tratta dalla impotenza riformatrice in campo istituzionale, straordinario alimento della offensiva populista. Da più di vent’anni, il sistema politico istituzionale italiano non è in grado né di decidere, né di rappresentare. Se c’è questo collasso, alla base del crescente baratro che separa la politica dai cittadini, allora è un cambio di regime ciò di cui abbiamo bisogno: semipresidenzialismo alla francese, sistema elettorale a doppio turno di collegio, una sola Camera politica, il Senato federale, carriere separate di magistrati requirenti e giudicanti, piena responsabilità fiscale delle Autonomie. Niente di meno. Perchè il meno – cominciamo a dimezzare i parlamentari, a sistema bicamerale invariato; l’IMU ai comuni, ma solo quella delle case di abitazione; meno soldi ai partiti, ma dalla prossima legislatura; … – non si realizza (c’è sempre qualcuno che, fondatamente, dimostra che il problema è ben altro) o, se si realizza, mostra la sua sostanziale irrilevanza. E il consenso ai populisti cresce indisturbato, ad ogni “riforma” mancata o inutile.
3° Mai cedere al ricatto del breve e brevissimo periodo. Il cambiamento radicale di cui il Paese ha bisogno può essere solo il frutto di un lungo ciclo di governo riformista, ispirato da un disegno che deve essere chiaramente enunciato; portato al giudizio degli elettori fin dall’inizio; ed attuato con tutta la necessaria duttilità tattica, ma senza perdere il filo della visione di lungo periodo.
I populisti, per definizione, si muovono per alimentare ed utilizzare la rabbia per le condizioni dell’oggi: l’Europa adotta soluzioni timide, errate o tardive per la crisi dell’area Euro? Al diavolo l’Europa, con la sua austerità ordoliberale alla tedesca. E se l’Euro crolla, ce ne faremo una ragione. Il debito pubblico italiano costringe le generazioni presenti a sacrifici troppo grandi, che solo tra molti anni daranno, se daranno, i benefici attesi, quando noi babyboomers, che dominiamo il presente, non ci saremo più? Una bella ristrutturazione del debito estero ci consentirà di passare meglio la “nostra” nottata; e al resto ci penserà chi verrà dopo di noi.
Il riformismo conseguente e radicale di cui il Paese ha bisogno ragiona e opera in termini esattamente opposti: vede la contraddittorietà, l’insufficienza e gli errori delle scelte degli organismi dell’Unione come e meglio dei populisti, proprio perchè li misura in rapporto ad un suo definito progetto di Unione fiscale, bancaria, politica. E utilizza la profonda insoddisfazione popolare per queste scelte lente, o errate, o mancate, per dare alimento alla sua strategia riformatrice.
E se i fatti – o la critica razionale dei risultati conseguiti – impongono di mutare scelte, i riformisti rendono esplicito questo mutamento, dandone ragione ai propri interlocutori. L’atteggiamento contrario crea confusione e disorienta: se ad esempio si sostiene per anni che la misura necessaria e sufficiente per combattere la crescente precarietà dei rapporti di lavoro è quella di rendere il lavoro precario più costoso, per l’imprenditore che vi fa ricorso, di quello stabile, si fa bene a cambiare idea, quando si constata che l’effettiva adozione di norme in tal senso non ha gli effetti risolutivi preventivati.
Ma non si può tranquillamente voltare pagina e passare a richiedere l’eliminazione degli aggravi di costo, perchè nocivi al livello dell’occupazione, senza dar conto delle ragioni che inducono ad una svolta così repentina. Non si può, non solo e non tanto perchè non è serio. Ma perchè disorienta, indebolisce e, in ultima istanza, fa perdere credibilità. “Quando i fatti cambiano, io cambio idea. E lei, signore?” Così si dice che Keynes mandasse a dire a Churchill che faceva battute sul suo vizio di cambiare troppo spesso opinione. Una bella replica. Che però non si addice a chi l’idea la cambia senza dirlo, quando i fatti, restando uguale a se stessi, dimostrano semplicemente che l’idea era sbagliata in origine.
IL FUTURO DI LIBERTÀEGUALE
– Di queste tre indicazioni faremo bene a far tesoro anche nella progettazione del lavoro futuro della nostra Associazione, di LibertàEguale. Per affrontare i problemi della sua ristrutturazione e del suo rilancio terremo una specifica assemblea nazionale ad aprile, a Roma. Utilizzo l’occasione di questo intervento per dire fin d’ora che – nel progettare il nostro futuro – dovremo esaminare a fondo i limiti e gli errori, ma dovremo far leva su tre fattori di forza, che ci vengono dalla esperienza passata.
– Degli errori – di quelli che contano – in realtà mi sono già occupato. Molti hanno detto: subiamo una sconfitta pesante. Sì, è sconfitta ed è pesante. Ma non si misura – per come la penso io – sulla base della nostra presenza-assenza nelle liste del PD. Si misura sul carattere indeterminato del progetto che il centro-sinistra presenta al Paese. Sulla difficoltà a cogliere appieno l’occasione che ci viene offerta dal collasso del centro-destra. Qualche anno fa, per un brevissimo periodo, abbiamo pensato – meglio, io ho commesso l’errore di pensare – che il salto di cultura politica (dalla vecchia alla nuova sinistra) fosse compiuto. Che cominciasse una storia davvero nuova. Sbagliato. C’è ancora molta battaglia politico-culturale da fare, per LibertàEguale. Per lavorare al meglio, saranno utili tre fattori di forza.
Il primo è uno strumento: QdR. So che Antonio Funiciello e gli altri membri della redazione hanno avviato una riflessione. Terremo in gran conto le conclusioni cui giungeranno. Ma fin d’ora voglio dire che non condividerei scelte di smobilitazione. Nel corso dell’anno, settimana dopo settimana, LibertàEguale è QdR, con la sua capacità di avanzare proposte e giudizi, di fare battaglia delle idee, di polemizzare con l’altra sinistra. Per questo, sarà necessario trovare le risorse economiche e organizzative – quelle di intelligenza e di voglia di fare ci sono già, e potranno ancora crescere – per rafforzare questo strumento.
Il secondo fattore di forza è il carattere aperto ed effettivamente plurale – anche sotto il profilo della appartenenza partitica – dei membri e dei dirigenti di LibertàEguale. Liberal, liberaldemocratici, liberalsocialisti: LibertàEguale può e deve essere la casa di tutti. O, meglio, l’opificio di tutti. Perchè nel nuovo contesto politico creato dal voto di febbraio si farà più acuta l’esigenza di sedi che sappiano lavorare alle soluzioni da offrire ai problemi strutturali che sono alla base della crisi italiana. C’è ancora molto da fare, in proposito. Se è vero che – come hanno scritto Pietro Reichlin e Aldo Rustichini nel loro saggio “pensare la sinistra” – oggi nel nostro campo sono ancora così numerosi quelli che considerano che la crisi italiana sia esclusivamente figlia “della speculazione, della globalizzazione finanziaria e di un mercato libero da ogni vincolo”, e pensano – conseguentemente – che i rimedi possano consistere nella “crescita della spesa pubblica e nella maggiore presenza dello Stato nell’economia”. Ecco: alla vigilia – tutti noi lo speriamo e lavoriamo perchè così sia – di una nuova stagione di governo del centro-sinistra, noi di LibertàEguale possiamo essere una delle sedi nelle quali la sinistra di cui siamo parte – quella dell’egualitarismo liberale”, per dirlo ancora con Reichlin e Rustichini – conduce le sue prove.
Il terzo fattore di forza, che dobbiamo portare con noi nella fase che si apre, è l’altezza delle nostre ambizioni. Un po’ sul serio, un po’ per scherzo, ho scritto stamani sul Foglio – replicando a Franco Debenedetti – che siamo affetti da megalomania… Può darsi che questo vizio sia solo mio. E che alla sua esaltazione io faccia ricorso in questi giorni, anche per autoconsolarmi di fronte a troppe ragioni di amarezza. Ma LibertàEguale non avrebbe mai colto i successi che pure ha conseguito se avesse misurato i suoi obiettivi con il metro della propria forza organizzata. Dovrà continuare così, anche se dovremo trovare il modo, tutti insieme, di irrobustirci anche sul piano organizzativo.
Grazie
Orvieto 12 gennaio 2013