Gli equilibri del mondo

 

Relazione di Claudia Mancina all’Assemblea Nazionale di Libertà Eguale a Orvieto.

Tra poco più di 48 ore entrerà in carica Trump e la nuova amministrazione americana. Gli equilibri del mondo, già molto scossi dagli eventi di questi anni, potrebbero essere ulteriormente destabilizzati. Viviamo un’epoca difficile; le certezze che ci hanno accompagnato dal dopoguerra alla fine del secolo non ci sono più. Non è più scontata la leadership americana dell’Occidente, che ha assicurato finora la pace all’Europa. La guerra in Ucraina e la guerra in Medio Oriente, pur molto diverse tra loro, hanno messo egualmente in discussione il ruolo dell’UE e l’autocoscienza dell’intero fronte occidentale. Si dice spesso che si tratta di uno scontro tra democrazie e autocrazie, in modo più tradizionale nel caso ucraino, ma in modo più sotterraneo anche nel teatro mediorientale. Ed è certamente così, ma bisogna guardare più a fondo. Anzitutto bisogna evitare di pensare che si tratti di una nuova guerra fredda. Non ci sono due blocchi che si confrontano sul piano militare e politico. C’è invece un movimento di penetrazione sistematica e generalizzata da parte delle autocrazie, attraverso la dipendenza commerciale (pensiamo al petrolio russo o alla via della seta cinese) e ancor più attraverso un uso spregiudicato delle tecnologie e piattaforme di Internet. Da questa penetrazione ci si deve difendere, moltiplicando la trasparenza dei sistemi di internet e regolandone la proprietà. Bisogna aggiungere che i due blocchi della guerra fredda, pur molto lontani tra di loro, condividevano però l’origine europea della loro cultura. Il marxismo, che era alla base del sistema sovietico, derivava dalle teorie economiche e sociali europee; dalla critica della democrazia borghese nasceva l’idea – poi rivelatasi del tutto fallace – di costruire una forma più avanzata di democrazia. In modo critico e conflittuale, l’Unione sovietica apparteneva pur sempre all’Europa. La Russia di Putin, invece, ha fatto una scelta diversa, riprendendo temi slavofili e eurasiani, cioè vedendo se stessa come un continente autonomo, l’Eurasia appunto. La guerra di Putin all’Ucraina ha una sostanza morale o, nelle sue parole, spirituale:” L’Ucraina, ha spiegato nel famoso discorso precedente all’invasione, non è solo un paese vicino per noi. E’ parte integrante della nostra storia, della nostra cultura e del nostro spazio spirituale.” Questa sostanza spirituale coincide con il mondo russo, qualcosa che è ormai del tutto estraneo all’Europa, rifiutando l’ambizione universalista, che era propria anche dei bolscevichi, per sostituirla con il richiamo alla tradizione, alla conservazione, al nazionalismo, e sposando le posizioni della Chiesa ortodossa contro la degenerazione dei costumi occidentali. La Cina è ovviamente ancora più distante dalla civiltà occidentale, che peraltro utilizza strumentalmente con grande abilità.

Ma non c’è solo il nemico costituito dalle autocrazie. C’è anche un nemico interno, forse più insidioso. Il discorso diffuso sulla crisi della democrazia e l’autoflagellazione sulle colpe dell’Occidente hanno determinato uno stato d’animo collettivo che, soprattutto tra i giovani, produce l’identificazione acritica con tutti i movimenti antisistema, e perfino con movimenti terroristici. Se la democrazia è in crisi, qual è la differenza sostanziale delle democrazie dalle altre forme politiche? Se l’Occidente è responsabile di tutti i mali della storia, perché non identificarsi con i mille soggetti antioccidentali? Questo meccanismo è particolarmente evidente in relazione al conflitto israelo-palestinese. Mentre la guerra in Ucraina, che pure rappresenta il pericolo più vicino per gli europei, ed è al centro dell’agenda politica di tutti gli stati dell’UE, non suscita grandi emozioni, la guerra in Palestina ha prodotto migliaia di manifestazioni e anche aggressioni agli ebrei. Il vecchio, direi tradizionale antisemitismo assume una forma nuova; c’è un forte sentimento antiamericano e antioccidentale in questo antisemitismo, che identifica Israele come un avamposto dell’Occidente, e addirittura come uno stato coloniale. Un antiamericanismo che nasce e si sviluppa proprio nelle università americane, dove trova terreno fertile nello sviluppo, ormai consistente, di una cultura woke, che rifiuta il confronto democratico e lo sostituisce con il conflitto tra gruppi identitari impermeabili, con l’esclusione di ogni tentativo di dialogo e con la demonizzazione del dissenso. E’ quello che il politologo tedesco-americano Yascha Mounk, in un libro molto critico verso la cultura woke, chiama il separatismo progressista. Apparentemente progressista, aggiungerei.

Si tratta di una costellazione di idee che negli Stati Uniti si è sviluppata intorno al problema della razza; ma in Italia, e dovrei dire in Europa, ha trovato terreno fertile nell’antiamericanismo che è una tradizione inestirpabile nella destra come nella sinistra. E’ come se i bombardamenti di Israele avessero fatto saltare il tappo dell’antiamericanismo e antioccidentalismo. C’è questo alla base di molte posizioni. Sia ben chiaro, la politica di Netanyahu va criticata, soprattutto per quanto riguarda il rifiuto della prospettiva dei due stati e il sostegno agli insediamenti in Cisgiordania. Come si può criticare la durezza dell’intervento a Gaza. Ma che si parli di genocidio è inaccettabile; è inaccettabile che si parli soltanto delle vittime palestinesi, peraltro dando per buoni i numeri forniti da Hamas, e si dimentichi, o addirittura si giustifichi come atto di resistenza, il mostruoso attacco del 7 ottobre. E’ inaccettabile che non si ricordi che Hamas ha costruito chilometri e chilometri di tunnel sotto le case e gli ospedali, di fatto usando i civili come scudi umani.

Tutti vogliamo la pace, sia in Ucraina che in Medio Oriente; ma le responsabilità non devono essere dimenticate, o il pacifismo si confonde con la resa.

Oggi finalmente è stata siglata una tregua tra Israele e Hamas. I prossimi passi però saranno difficili; difficile sarà costruire una situazione che consenta la progressiva uscita dall’odio e la messa al bando dei terroristi. Dobbiamo sperare che la mediazione americana e delle monarchie del golfo ottenga i risultati, estendendo gli accordi di Abramo e producendo una svolta democratica in Palestina.

All’interno di questo incerto fronte occidentale, l’Europa vive un suo specifico momento di crisi, che potrebbe definitivamente indebolirla oppure darle la spinta per una ulteriore svolta positiva. L’elezione di Trump non fa che aumentare i fattori di difficoltà, che erano già presenti e che sono evidenti nella crescente fragilità politica dei due maggiori paesi, Francia e Germania.  Di certo l’UE si trova di fronte a una scelta esistenziale: fare dei passi avanti fondamentali o ripiegare, perché questo significa stare ferma, di fronte alle spinte centrifughe che vengono ormai, sempre più forti, da diversi paesi. In questi tornanti essere ottimisti è d’obbligo, perché è la condizione per agire. Il riferimento è il rapporto Draghi, che mette al centro la necessità che l’Europa, se vuole essere e agire come potenza autonoma nel campo globale, sviluppi competitività, e dunque crescita e innovazione. Si tratta di proseguire con più decisione, ma anche con una messa a punto degli obiettivi, nella costruzione della sovranità europea, anzitutto attraverso debito comune, difesa comune, sicurezza strategica comune. Del tema parleranno Gentiloni e Tonini. Intanto i primi passi della nuova commissione non appaiono del tutto adeguati. La rappresentante per la politica estera Kallas ha appena affermato che sulle politiche della comunicazione gli stati membri sono liberi di fare le loro scelte, con riferimento all’ipotesi che il governo italiano sigli un accordo con Musk per l’uso dei suoi satelliti. Mostrando così di non cogliere che si tratta di un tema che riguarda la sicurezza strategica, e quindi sarebbe vitale che venisse affrontato unitariamente dall’Europa. Vorrei inoltre osservare che certe rigidità, come quella sul green deal, devono essere ridimensionate. E’ inutile porre delle scadenze temporali che non si riescono a rispettare, e la soluzione non sono le multe. Non possiamo certo permetterci una devastazione dell’automotive che comporta perdita di lavoro per migliaia e migliaia di persone. L’UE deve essere in grado di trovare soluzioni praticabili, senza ovviamente rinunciare all’obiettivo.

Nonostante questo quadro piuttosto fosco, la democrazia finora ha resistito, con qualche fatica (sempre salva l’incognita Trump). Si può parlare di crisi della democrazia come tale? Certo che c’è una crisi. La democrazia è un sistema instabile: questa è una debolezza ma è stata e può essere ancora anche una forza, perché le consente di mutare e trasformarsi. Non solo nella storia, ma anche nel presente, ha assunto forme diverse: escludendo le democrazie cosiddette illiberali, c’è una grande differenza, come constatiamo ogni giorno, tra la democrazia americana e quelle europee.

La prima ragione di instabilità è il rapporto col sistema economico. Storicamente la democrazia è nata col capitalismo, al quale resta strutturalmente legata, sebbene altri paesi, a partire dalla Cina, abbiano importato l’uno e non l’altra. Ora però il capitalismo è diventato globale, mentre la democrazia resta nazionale, così che è difficile per le istituzioni democratiche governare i cambiamenti e dare ai cittadini la protezione di cui hanno bisogno. Questa insopprimibile tendenza del capitalismo si incarna oggi nei Big Tech, i grandi imprenditori delle tecnologie, che rischiano di essere degli oligarchi su scala mondiale. Senza farsi prendere da ossessioni antitecnologiche, si deve realizzare un controllo sulla trasparenza di metodi e proprietà. Tuttavia va anche detto che l’Europa deve andare oltre la sua certamente giusta sensibilità regolatoria e impegnarsi a creare suoi soggetti tecnologici di dimensioni competitive: campioni globali, come si dice. Altrimenti il rischio che il potere degli oligarchi tecnologici dilaghi, mettendo in sofferenza tutte le istituzioni democratiche, è grande, in America, come ha sottolineato Biden nel suo ultimo discorso, ma anche in Europa. In poche parole, non basteranno le regole a difendere la democrazia; ci vuole una svolta sostanziale che costruisca una sovranità europea politica e non burocratica, capace di articolarsi positivamente con la dimensione nazionale.

Ma c’è un secondo punto di instabilità della democrazia, che è la questione della sovranità popolare e del suo modo di esprimersi. E’ la questione del populismo, che va visto come una faglia interna alla democrazia, un rischio strutturale in un sistema che si basa sulla sovranità popolare. Si dice spesso che il populismo è un concetto nebuloso e quindi inutile, ma non è vero. La definizione di populismo è molto chiara, e mette in evidenza tre aspetti: il disprezzo delle élite, la sfiducia nel sistema rappresentativo, e l’idea di un popolo indiscriminato, privo di differenziazioni interne e contrapposto alle élite. Questo insieme di idee è tutt’altro che nuovo, è vecchio e ricorrente in momenti clou della vita politica. Nel nostro caso, la fine della prima guerra mondiale, poi della seconda, e poi la fine della repubblica dei partiti. Il populismo può essere di destra o di sinistra, e prospera dove c’è un indebolimento della democrazia liberale. Alligna quindi oggi in tutti i paesi occidentali. Ma il populismo è una minaccia seria alle regole costituzionali e alla democrazia.

Lo slittamento della sinistra in una dimensione populista è una evidente espressione della sua debolezza, della sua rinuncia all’obiettivo di governare, e prima ancora di comprendere, la società.

Abbiamo intitolato questa nostra assemblea alla sinistra di governo. Intendiamo con ciò una sinistra che è riformista, liberale, progressista, e di conseguenza convintamente europeista.

Per le ragioni dette prima e sostenute nel rapporto Draghi. Una sinistra che crede nella forza del mercato e nel ruolo equilibratore dello stato, da svolgersi non attraverso meccanismi assistenziali, ma puntando sulla crescita, sull’innovazione, sull’invenzione tecnologica di imprese e individui. Una sinistra che crede nello sviluppo della libertà individuale in un quadro di condivisione e cooperazione. Che è progressista, non perché creda in una improbabile idea di progresso, ma perché si impegna, in questo mondo in tumultuosa trasformazione, per la promozione delle opportunità per tutti e per il benessere comune.

Bisogna capire che, nell’attuale quadro di difficoltà, la sinistra vive una difficoltà specifica, che la lascia spesso senza parole che non siano stanche ripetizioni di luoghi comuni. La sinistra è la parte che si è identificata con il Welfare state e le grandi conquiste sociali del Novecento, fondate su rapporti di lavoro e una dimensione nazionale della democrazia che oggi non tengono più. E’ anche la parte che, in tempi più recenti, si è identificata con una lettura univocamente ottimistica della globalizzazione, senza vedere i problemi da essa provocati, che sono esattamente quei problemi di disorientamento e insicurezza che hanno prodotto lo spostamento a destra che si verifica oggi in tutte le democrazie.

Uno spostamento a destra che va compreso senza cedere a polemiche facili e fuori tempo, come quella sul pericolo fascista, che purtroppo la fa da protagonista in Italia e non solo. Il caso di Trump è esemplare. L’offensiva giudiziaria nei suoi confronti, la denuncia dei suoi atteggiamenti estranei alla tradizione costituzionale americana, non sono stati sufficienti a impedire non solo la sua vittoria, ma le proporzioni sorprendenti di questa vittoria. Trump ha vinto in tutte le categorie sociali, tra i giovani e tra gli anziani, tra gli operai e tra i benestanti, tra gli uomini e tra le donne, tra i bianchi e tra i neri e perfino tra gli ispanici. Dunque c’è qualcosa di grosso sotto. Certo è l’economia: ma non in senso banale, visto che con l’amministrazione Biden l’economia è andata molto bene. Ha contato la paura dei cedi medi di scivolare verso il basso. Se su scala globale le diseguaglianze sono diminuite, e il mondo è molto più eguale di quanto sia mai stato, grazie soprattutto alla crescita della Cina, ma anche dell’India e di molti paesi africani, all’interno dei paesi occidentali le cose vanno diversamente. L’Occidente non è più il padrone del mondo e non ricava più ricchezza facile dal resto del mondo. Tra i cittadini dei paesi democratici si è diffusa la paura di un futuro più difficile. Tuttavia, se l’analisi si fermasse qui non coglierebbe il punto. Questo malessere di origine economica produce un irrigidimento culturale di natura difensiva: i diritti di minoranze vengono visti come un attacco ai propri diritti di cittadini. Dalla paura all’ossessione identitaria, che sia l’identità del suprematismo bianco o quella della tradizione familista italiana. Una narrazione che colpevolizza la cultura democratica di apertura e di accoglienza, a questo punto, affonda come una lama nel burro.

Di fronte a questa situazione, la sinistra riformista e progressista, la sinistra di governo, non può limitarsi alla denuncia, pena la sconfitta. Né può ricorrere a vecchie parole d’ordine, o a una dimensione moralistica che non è in sé sbagliata ma non basta a costruire una alternativa politica alle destre vincenti. La questione che si pone in modo ineludibile è una questione in qualche modo antica, che si presenta però in termini completamente nuovi: la questione della base sociale. Qual è la base sociale della sinistra? Qualcuno crede che il problema sia aver abbandonato la sua storica base sociale, per adagiarsi nella ZTL, negli strati sociali più colti e, se non ricchi, benestanti. Certamente le città, non solo in Italia, sono più a sinistra, perché sono più connesse con la dimensione globale dell’economia e del sapere. Più difficile è parlare alle periferie, urbane, economiche, culturali. Ma se è così, non serve cercare una vecchia base sociale che non c’è più, che è frammentata in mille schegge, in mille lavori diversi, che non possono più stare dentro un modello unitario come al tempo della fabbrica, o, al contrario, inseguire un consenso superficiale che non può non essere volatile. Le periferie non devono essere soltanto assistite (anche questo, certamente, quando è necessario): devono essere inserite nei circuiti globali. Mettere insieme crescita e protezione è la sfida: meriti e bisogni, ha detto Claudio Martelli già molti anni fa. Ignorare il bisogno di protezione, la paura che ne consegue, e che facilmente può diventare odio per il diverso e per l’estraneo, o presunto tale, significa lasciare uno spazio enorme alla destra. Certo non si può cercare la base sociale in un generico e moralistico riferimento ai poveri o ai più deboli. Una sinistra che si limiti a questo è inevitabilmente minoritaria. I poveri devono essere salvaguardati, ma all’interno di un progetto forte che parli a ceti diversi e proponga un futuro a tutti. In altre parole: non c’è una base sociale predefinita. Una base sociale si costruisce con le scelte politiche, non è qualcosa che sta lì e deve solo essere decrittata. Ma per fare questa cosa, per costruire una base sociale, bisogna avere un’idea di dove portare la società, come l’avevano i comunisti negli anni Venti o i socialisti in anni più recenti. O come l’hanno avuta a lungo i democratici americani.

In un libro interessante e in larga parte convincente, dal titolo provocatorio di Il follemente corretto, Luca Ricolfi ha sostenuto che la sinistra ha abbandonato la sua base sociale perché si è spostata sui diritti. Penso che sia in verità il contrario: si è spostata sui diritti perché si è persa la base sociale. Intendiamoci, il tema dei diritti è importante; ma viene spesso declinato, non solo in Italia, in un modo estremo, che lascia perplessi. La grande crescita di diritti attinenti a sfere personali come la sessualità, gli orientamenti sessuali, l’identificazione di genere, è un fatto comune a tutte le democrazie e va vista come un avanzamento importante della libertà individuale e della eguaglianza di status che è alla base della nostra civiltà. Non ne deriva che sia possibile una infinita e indeterminata rivendicazione di diritti personali del tutto privi di contesto sociale o anche semplicemente di concretezza (vedi il caso della presenza di persone trans nello sport, o in situazioni complesse e pericolose come la detenzione). Troppo spesso i diritti di qualcuno vengono branditi senza rispetto per i diritti di altri. Bisogni e desideri degli individui (che peraltro non sono la stessa cosa, anche se è spesso difficile distinguerli) non possono diventare automaticamente diritti, ma richiedono un passaggio attraverso la dimensione collettiva e il rispetto dovuto a tutti. Non si può passare dalla tirannia della maggioranza alla tirannia delle minoranze.

Essere sinistra di governo comporta puntare non solo a vincere, ma a governare. Le due cose non sono identiche. Il campo del centrosinistra è oggi presidiato da un Pd indubbiamente in buona salute, ma ben lontano dal poter vincere da solo. Allearsi è giusto e necessario, ma non serve coltivare, come troppo spesso fa l’attuale dirigenza del Pd, ambiguità su temi importanti, dalla politica estera alle politiche redistributive, dalle politiche industriali all’immigrazione, nell’illusione che così si renda più facile l’alleanza. Il rischio, come abbiamo già visto nel caso del secondo governo Prodi, è che una coalizione messa su solo per vincere, poi -ammesso che vinca – si sfasci davanti alle scelte politiche. Quello che dovrebbe essere il principale alleato, il movimento 5 stelle di Conte, oscilla tra centrosinistra e velleità di indipendenza. Conte ha toccato il colmo della sua straordinaria capacità di contorcimenti politici e verbali quando ha detto di essere progressista, ma non di sinistra. Forse questa audace affermazione significa che si può essere progressisti senza sostenere l’Ucraina, senza fare una netta scelta per l’Europa e per la Nato? Significa che si è pronti ad accettare le presunte giustificazioni dell’aggressione russa? Che si intende l’intervento dello stato come iniezione a pioggia di spesa pubblica? Sono domande a cui è necessaria una risposta, se si vuole costruire una coalizione che abbia credibilità e possa quindi conquistare la fiducia degli elettori.  Poi c’è il problema del centro, questa eterna araba fenice della politica italiana. Possiamo concepire il campo progressista come un centro-sinistra col trattino? Se ci sono soggetti di centro disposti ad allearsi con la sinistra, questa è certamente una cosa positiva. Essere unitari, anzi testardamente unitari, come dice la segretaria del Pd, significa non porre veti e tessere rapporti. Ma se il Pd si confina in uno spazio supposto di sinistra radicale, lascia scoperto uno spazio che non è scontato che venga riempito in modo efficace. Una divisione del lavoro di questo tipo non è credibile. Avrebbe un senso se ci fossero ceti sociali diversi a cui fare riferimento. Ma, per le ragioni dette prima, non è affatto detto che la base sociale del centro e quella della sinistra siano così facilmente distinguibili. Certo ci sono culture diverse, e tutte possono dare un contributo essenziale, dentro e fuori dei soggetti politici, purché ci sia fra loro una interlocuzione sul terreno del riformismo. La coalizione politica non può essere una semplice sommatoria: si deve costruire, pur nelle differenze, un tessuto comune di principi e di obiettivi. Il tempo c’è, si dovrebbe lavorare su questo, promuovendo momenti unitari di riflessione e di discussione sia all’interno del Pd, sia con i possibili altri soggetti della coalizione.

Ci sono problemi sui quali l’opposizione si limita alla denuncia, come l’immigrazione e la sicurezza. Politiche repressive o di propaganda, come quella del progetto Albania, non si smontano con la denuncia. La sinistra dice, giustamente, che ci vuole un impegno per l’integrazione, attraverso la scuola e la cittadinanza. E questo è giustissimo. Ma non risponde al problema posto dalla nostra premier, come da tutte le destre europee e non solo, che è il controllo dell’immigrazione irregolare. Su questo urge un pensiero nuovo, perché non si tratta di un’emergenza ma di un fenomeno strutturale del nostro mondo, destinato solo ad aumentare se aumenta il disordine geopolitico. Un fenomeno che impatta negativamente soprattutto sui ceti più vulnerabili, che non a caso sostengono le posizioni più dure e quindi la destra che le propone. Così come un pensiero nuovo è necessario sulla questione sicurezza, che pure riguarda anzitutto i ceti deboli, e che tradizionalmente la sinistra ha considerato inaccettabile. E’ invece necessario impostare la questione in un altro modo, a partire dalle riflessioni di Minniti.

L’insufficienza di una posizione puramente negativa è evidente anche nelle questioni istituzionali, rispetto alle quali l’opposizione dovrebbe essere disposta a lavorare insieme con la maggioranza (e anche viceversa naturalmente), perché le regole sono di tutti e dovrebbero essere definite insieme. Libertà eguale segue un filone della sinistra, che comprende anche il presidente Napolitano e Augusto Barbera, che non ha mai negato la necessità di intervenire sulla forma di governo, la cui forma consegnata alla Costituzione è attribuibile alla sfiducia reciproca tra forze divise dalla guerra fredda. Si è lavorato per molti anni alla ricerca di una soluzione condivisa che potesse mettere il governo del nostro paese allo stesso livello di stabilità e di efficacia degli altri governi a base parlamentare. La questione è ancora aperta, visto che abbiamo una proposta di riforma della maggioranza, il cosiddetto premierato, che ha parecchi difetti nella sua concezione, tanto che sembra che la stessa premier intenda spostarlo a fine legislatura per evitare un referendum prima delle elezioni politiche.

Sul premierato c’è stato un grosso lavoro da parte di varie associazioni, tra cui Libertà eguale, che ha evidenziato i punti deboli della proposta di governo, sia sulle modalità di elezione, sia per la presenza di due camere con potere di fiducia, cosa che non esiste in nessun sistema parlamentare. Mentre va apprezzato il tetto del doppio mandato, che è la soluzione giusta per evitare una deriva populista per tutte le cariche elette direttamente. A questa proposta l’opposizione ha saputo finora reagire solo con il rifiuto di ogni confronto e, naturalmente, con l’evocazione della dittatura. Ma sarebbe più utile e più significativo cercare un dialogo. Tra l’altro l’opposizione avrebbe carte importanti in un confronto, avendo alle spalle la Tesi 1 dell’Ulivo e l’elaborazione del progetto Salvi nella Bicamerale D’Alema. Ma forse l’attuale segreteria del partito democratico non si sente in continuità con l’esperienza di quegli anni? Se fosse così, sarebbe grave. La stessa posizione puramente negativa è stata presa sul progetto di autonomia differenziata, che è stato profondamente rivisto dalla Corte costituzionale, tra l’altro con la richiesta di un maggiore ruolo del Parlamento e di deleghe puntuali per le varie materie e funzioni. Ci auguriamo che si esca dalla battaglia campale e ci si impegni a correggere il testo insieme secondo le indicazioni della Corte. E magari aprendo il discorso sul Senato regionale, come suggerisce Ceccanti.

Infine sulla separazione delle carriere: è una visione che abbiamo sempre sostenuto, considerandola una norma liberale, come argomentato tra l’altro da un documento scritto da Claudio Petruccioli nel febbraio 2022, che considerava la separazione delle carriere come condizione necessaria per la terzietà del giudice, introdotta in Costituzione nel 1999. Oggi di fronte al progetto della maggioranza diciamo che è condivisibile, ma che il sorteggio previsto per gli organi di rappresentanza è un errore. Anche in questo caso, un dialogo tra maggioranza e opposizione sarebbe stato la via giusta per migliorare il testo e anche per eliminare i molti veleni che girano intorno a questo tema.

Infine, devo dire alcune cose sul rapporto, su cui nei giorni scorsi si è molto speculato, tra la nostra iniziativa di oggi e domani e quella contemporanea di un gruppo di cattolici riunito da Graziano Del Rio a Milano. Non è in discussione la collocazione nel centrosinistra né da parte nostra né, mi pare, da parte dell’iniziativa di Milano. Ci sono ovviamente delle differenze. Libertà eguale è un’associazione che ha 25 anni di vita (ma in realtà anche di più, perché fu preceduta da un gruppo che si chiamava La Quercia e L’Ulivo), e che ogni anno riunisce a Orvieto la sua assemblea, discutendo le questioni di cultura politica della sinistra. In questa associazione ci sono molti cattolici, così come ex comunisti, socialisti o persone di altra provenienza. Il legame che unisce gli uomini e le donne di Libertà eguale non sono le passate appartenenze, né una affiliazione culturale o religiosa, ma la scelta riformista e l’impegno politico conseguente.  Anche se in prevalenza si tratta di aderenti al Partito democratico, l’associazione non intende essere una corrente di partito, ma un luogo di raccolta e di discussione per tutti i riformisti. Con questo spirito guardiamo con interesse al convegno di Milano. Non ci accomuna la ricerca del centro, ma la convinzione che si deve riprendere la discussione e la comune ricerca di una base più solida per l’opposizione di centrosinistra. Libertà eguale, per la sua storia e per le sue caratteristiche, si impegna a proporre a tutte i soggetti interessati – associazioni, gruppi, individui – un terreno di collaborazione e di iniziativa riformista. Perché solo così si potrà costruire una vera sinistra di governo.

 

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