Il bigino del Patto Climatico di Glasgow

Di Sara Gandolfi, inviata a Glasgow.

Il Patto Climatico di Glasgow invita esplicitamente i governi a tornare l’anno prossimo con piani nazionali più ambiziosi per ridurre le emissioni al 2030, afferma che tutte i Paesi parte dell’Accordo di Parigi dovranno ridurre le emissioni di CO2 del 45% in questo decennio per mantenere il riscaldamento medio globale dell’atmosfera al di sotto della soglia critica di 1.5°C. Resta irrisolta la questione cruciale di come dovrà essere diviso o condiviso l’onore di questi tagli. Esorta le nazioni ricche a raddoppiare entro il 2025 i finanziamenti per aiutare le nazioni più vulnerabili a proteggersi dagli effetti del cambiamento climatico e menziona esplicitamente, un fatto storico, la necessità di accelerare la riduzione dell’uso del carbone e la fine dei sussidi ai combustibili fossili. Lascia, però, la stragrande maggioranza dei Paesi in via di sviluppo a corto dei fondi indispensabili per effettuare una «transizione giusta» verso fonti energetiche più pulite e per affrontare gli eventi estremi, già causa di perdite e danni. Il documento finale ufficiale della COP sostiene che «i delegati hanno forgiato accordi che rafforzano l’ambizione nei tre pilastri dell’azione collettiva per il clima».
Adattamento, tema chiave per I Paesi più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico. Le parti hanno stabilito un programma di lavoro per definire l’obiettivo globale sull’adattamento.
Il Patto prevede la creazione di un database e di un sistema di comunicazione e segnalazione, chiamato Santiago Network. Molti Paesi in via di sviluppo speravano che Cop26 potesse fornire un ulteriore passo avanti, verso una qualche forma di meccanismo di finanziamento per perdite e danni. Non ci sono riusciti. Ma la Conferenza ha approvato i due registri per NDC e Adaptation Communications, che fungono da canali per il flusso di informazioni verso il cosiddetto Global Stocktake, una sorta di verifica complessiva, che avrà luogo ogni cinque anni a partire dal 2023.
Finanza climatica: i Paesi sviluppati sono in grave ritardo rispetto alle promesse fatte fin dal 2009 (100 miliardi di dollari l’anno a partire dal 2020). «C’è stato consenso sulla necessità di continuare ad aumentare il sostegno ai Paesi in via di sviluppo. L’invito ad almeno raddoppiare il finanziamento per l’adeguamento è stato accolto con favore dalle parti. È stato anche riaffermato il dovere di adempiere all’impegno di fornire 100 miliardi di dollari all’anno dai Paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo. Ed è stato avviato un processo per definire il nuovo obiettivo globale sulla finanza». Il Patto ha concordato che è necessario che una quota maggiore di questi finanziamenti siano spesi per l’adattamento, piuttosto che per la riduzione delle emissioni (finanziando ad esempio programmi di energia rinnovabile nei Paesi a medio reddito che potrebbero essere finanziati anche senza aiuti dal momento che realizzano anche un profitto). Le Nazioni Unite e alcuni Paesi chiedevano una suddivisione del 50:50 tra i finanziamenti per la riduzione delle emissioni e i finanziamenti per l’adattamento, quindi questo non è stato all’altezza, ma è ancora un passo importante. Non ci sono riusciti.
Mitigazione, il divario persistente nelle emissioni è stato chiaramente identificato. «Le parti sono incoraggiate a rafforzare le proprie riduzioni delle emissioni e ad allineare i propri impegni nazionali in materia di azione per il clima con l’accordo di Parigi». La revisione al rialzo degli NDC sarà all’ordine del giorno delle prossime due Cop, in Egitto nel 2022 e negli Emirati nel 2023. Come devono essere però divisi, o condivisi, questi tagli? I Paesi ricchi, tra cui Stati Uniti, Canada, Giappone e gran parte dell’Europa occidentale, rappresentano oggi solo il 12% della popolazione mondiale, ma sono responsabili del 50% di tutti i gas serra emessi in atmosfera negli ultimi 170 anni.
«Rulebook», un risultato chiave è la conclusione del cosiddetto regolamento di Parigi. Per quanto concerne l’abbandono del carbone come fonte energetica, India, Indonesia e Sud Africa sostengono di non avere le risorse finanziare per affrontare la transizione energetica verso fonti rinnovabili e pulite e che le nazioni ricche sono state finora poco generose con gli aiuti.
Carbonio: i negoziatori hanno annunciato un importante accordo su come regolare il mercato globale in rapida crescita delle compensazioni di carbonio, in cui una società o un Paese compensa le proprie emissioni pagando qualcun altro per ridurre le proprie. Una delle questioni tecniche più spinose è come tenere conto correttamente di questi scambi globali in modo che eventuali riduzioni delle emissioni non vengano sopravvalutate o conteggiate due volte. I Paesi vulnerabili insistono sul fatto che le nazioni ricche dovrebbero concedere loro una quota dei proventi delle transazioni del mercato del carbonio per aiutarli a costruire la resilienza ai cambiamenti climatici. Stati Uniti e Unione Europea si sono opposti. Ian Fry negoziatore per le isole Salomone ha commentato: «Vogliamo un mercato credibile che offra riduzioni delle emissioni, non solo un pass gratuito per i paesi per acquistare crediti offshore a basso costo per soddisfare i loro requisiti nazionali».
Trasparenza: si sono conclusi anche i negoziati sulla Trasparenza, o Enhanced Transparency Framework, che prevede tabelle e formati concordati per rendicontare e controllare obiettivi ed emissioni.

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