Di Paolo Natale, Professore – Università degli Studi di Milano.
Articolo pubblicato da Gli Stati Generali.
Sono passati quasi quattro anni dalle ultime elezioni politiche e, per certi versi, è come se parlassimo di un’altra era geologica, ora che ci avviciniamo al rinnovo del Parlamento, nel 2023 o forse, chissà, anche prima, tra pochi mesi, se Draghi salisse al colle e si sciogliessero le Camere anticipatamente.
Le consultazioni del 2018 restano effettivamente una sorta di spartiacque tra la seconda repubblica e un’ipotetica terza, quella attuale. Fino ad allora si erano succeduti governi tutto sommato abbastanza stabili e, pur con qualche “strano” intermezzo (vedi il breve governo Letta), con maggioranze chiare, che facevano più o meno riferimento al classico bipolarismo iniziato all’indomani di Tangentopoli con la discesa in campo di Berlusconi.
Da allora molto è cambiato, soprattutto a causa della presenza di un movimento che avrebbe dovuto essere irriducibile nel proprio isolamento, né con la destra né con la sinistra né con l’establishment, ma che poi grazie proprio al suo largo successo si è visto quasi costretto – se così si può dire – a governare in realtà con tutti, alternativamente: prima con la destra poi con la sinistra e infine con lo stesso establishment, rappresentato da Mario Draghi.
Un comportamento ondivago che, si sa, ha avuto come effetto quello di alienarsi una parte piuttosto significativa, la metà circa, del proprio elettorato, che si è spostato in direzione proprio di quei partiti con cui si è di volta in volta alleato. E del movimento “anti-casta”, capace di diventare importante punto di riferimento dei parecchi delusi della politica tradizionale, oggi è rimasto ben poco.
Nonostante questo grande rimescolamento di forze, confrontando i risultati del 2018 con le attuali tendenze di voto emerge peraltro un fatto piuttosto curioso: con l’eccezione già sottolineata del M5s e quella di Fratelli d’Italia, tutti gli altri partiti sono di fatto ritornati al punto di partenza. Il Partito Democratico ha un appeal simile a 4 anni fa (poco sotto il 20%), lo stesso dicasi per l’area alla sua sinistra (al 3%) e per la Lega (intorno al 18%), mentre Forza Italia cala un po’ di più, perdendo 4-5 punti percentuali, a seguito della crisi politica di Berlusconi.
Dunque, a livello di saldo, l’unico reale e significativo movimento di questi ultimi anni è stato il passaggio di voti dal M5s (-15%), transitati provvisoriamente nella Lega, per poi approdare a Fratelli d’Italia (+15%). La forza “coalizionale” della sinistra è rimasta immutata (intorno al 25%), mentre quella della destra si è incrementata di 10 punti, grazie proprio all’entrata di ex-pentastellati, avvicinandosi alla maggioranza assoluta dei consensi.
Ciononostante, seppur ridotto in termini quantitativi, persiste il serbatoio elettorale meridionale del Movimento 5 stelle, che nelle regioni dalla Campania in giù rimane ancor’oggi, come allora, il partito maggiormente indicato nel voto politico, da quegli stessi elettori che gli hanno voltato le spalle a livello amministrativo. Come è spesso accaduto, peraltro.
Dall’altra parte, è il centro-destra nelle sue principali componenti (Lega e Fratelli) ad essere nettamente maggioritario in tutte le regioni settentrionali del paese, con il partito di Meloni pronto ad insediare la supremazia leghista nel nord-ovest. M5s al sud, dunque, e destra al Nord, queste le principali roccaforti di questi partiti.
E il Partito Democratico? Si trincera come sappiamo nelle grandi città e in parte nelle sue storiche regioni “ex-rosse”, ma mostrando scarsa capacità di diventare punto di riferimento nelle altre aree del paese.